Ti guardo

Peccato che Ernesto Guevara non possa vedere questo film. Perché avrebbe potuto convincersi una volta di più che il suo sogno panamericano (per lo meno a livello artistico) non era semplice utopia di un visionario illuminato ma realtà possibile. Se il regista di Ti guardo è infatti un venezuelano di formazione newyorkese avviato verso radiosi successi futuri e la sceneggiatura è ugualmente opera sua ma a quattro mani col pluridecorato messicano Guillermo Arriaga, il ruolo del protagonista è interpretato da Alfredo Castro, la più grande star del cinema cileno, così come cileno è l’autore della straniata fotografia mentre a co-produrre il tutto è il giovane regista e sceneggiatore messicano Michel Franco.

Scherzi a parte, Ti guardo — Leone d’oro a Venezia lo scorso settembre non senza qualche strascico polemico — è molto di più che un puzzle riuscito della geografia artistica dell’America Latina, imponendosi invece come il volto vincente di un’industria cinematografica che non smette mai di sfornare nuovi talenti sempre più impegnati nello sforzo di dare corpo e anima alle contraddizioni socio-culturali ed economiche di un continente alla deriva di se stesso nella costante ricerca di un equilibrio impossibile tra masse ribollenti di umanità in fermento.

Nella Caracas tutta rumori, degrado e indifferenza diffusa l’odontoiatra di mezza età Armando cerca di dare un senso alla sua emarginazione emotiva e fisica prezzolando adolescenti assetati di soldi di cui osserva compiaciuto la nudità indifesa senza però mai sfiorarli con un dito e pretendendo da loro un’analoga astensione dal contatto diretto. Pratica questa che è per lui una sorta di correlativo comportamentale della sua atrofia sentimentale tutta votata allo sguardo e alle gioie masturbatorie della contemplazione passiva.

Ma un giorno Armando si imbatte in Elder, ennesimo ragazzo di vita (il fantasma di Pasolini aleggia furtivo un po’ dappertutto tra le righe della sceneggiatura e nelle modalità di approccio alla materia che qualche decennio fa si sarebbe definita «scabrosa») che solo in apparenza sembra simile alla triste sequenza di altri teppistelli di borgata in cerca di denaro facile in cambio di prestazioni nemmeno troppo sporche.

Le cose però non stanno affatto così. Dopo un inizio tempestoso con il giovane corrucciato e aggressivo che sulle prime malmena l’atarattico Armando non dopo averlo derubato a domicilio e poi fa ben poco per evitare il coinvolgimento in qualcosa cui nessuno dei due sa dare un nome preciso, la storia si avvita in un vortice convulso che frulla senza pietà sperequazioni sociali e conflitti di classe, omofobia di una società ancora dominata da machismo violento e dense problematiche familiari che i due uomini divisi da tutto scoprono col passare dei giorni di avere invece in comune.

Ed è proprio la scoperta di condividere una falla decisiva nel rapporto col rispettivo padre ad attorcigliare i destini di due vite apparentemente prive di punti di contatto, convertendone la divergenza parallela all’infinito in un possibile incontro che vada ben aldilà degli egoismi reciproci e delle convenienze che entrambi sembrano avere nel perseverare del proprio voler andare contro tutti quelli che non esitano a farsi beffe della loro diversità.

In un film già di per sé fin troppo denso di temi delicatissimi chiamati a fare da ossatura narrativa a una storia spoglia di accadimenti di rilievo, il regista venezuelano e il premio Oscar Guillermo Arriaga (suoi gli script di Amores Perros, 21 grammi — Il peso dell’anima e Le tre sepolture) inseriscono così questa ulteriore sollecitazione dal vago sapore psicanalitico che anche il triumvirato Freud-Jung-Lacan avrebbe fatto fatica a districare.

Se Elder — interpretato con grinta accigliata dall’esordiente Luis Silva, pescato da Lorenzo Vigas nella suburra ribollente di Caracas — confessa di essere figlio di un padre assente (come accade a milioni di giovani venezuelani, costretti ad abituarsi a figure paterne evanescenti e quasi mai in casa per adeguamento passivo a un diffuso modello sociale più che per scelta volontaria), il passato di Armando è un cuore di tenebra popolato dal fantasma di un genitore reo di obbrobriosi abusi sessuali che gli hanno lasciato cicatrici insanabili nel cuore e nella memoria.

Escamotage questo che il pubblico capisce ben presto non essere una mera zeppa per dilatare l’esigua durata del film. Perché è proprio la ricomparsa sulla scena del padre di Armando a imporre al film una svolta imprevista e imprevedibile, destinata a condizionare non solo l’evolversi dei rapporti sempre più squilibrati tra lui e l’ormai ex teppista (con inversione di ruoli che vedono l’uomo più maturo portato a tenere le distanze e il più giovane a mostrare dipendenza emotiva), ma anche a regalare un finale ricco di perturbanti colpi di scena che non sarebbe bene anticipare rovinandone l’effetto sorpresa.

Anche se impostato come film a tema e imperniato su una concentrazione di motivi di grande impegno civile (il che farà la gioia di quanti amano il cinema pensieroso che riflette sulla realtà denunciandone le storture ovunque si palesino in giro per il mondo), è inevitabile che spettatori meno sensibili a questo tipo di approccio possano rubricare Ti guardo come un prodotto confezionato in laboratorio nel quale l’ansia di colpire al cuore con le armi del cervello sopravanza di gran lunga l’autenticità del pathos.

Va però reso atto a questo ex documentarista di aver fatto centro col lungometraggio d’esordio, dimostrando non solo di aver assimilato al meglio la lezione di maestri del calibro di Pasolini e Fassbinder, qui più volte evocati a livello di tematica omosessuale al centro dell’intera operazione e di gioventù delle borgate più o meno bruciata, ma anche di aver saputo chiamare a raccolta stelle di prima grandezza del firmamento cinematografico sudamericano, convinte a lavorare nel progetto di quello che fino alle soglie del Festival di Venezia era un emerito nessuno.

Impossibile a questo proposito non menzionare tra quelle stelle Alfredo Castro, probabilmente il più noto attore cileno vivente divenuto popolarissimo in tutto il mondo per essere diventato l’interprete feticcio di tutti i film del connazionale Pablo Larraín (Tony Manero, Post Mortem, I giorni dell’arcobaleno), e qui capace di dare spessore infinito al complesso personaggio dell’odontoiatra Armando non ostante la grande penuria di dialoghi e il ricorso costante alla sola espressività del volto e degli occhi.

Ma impossibile anche non segnalare l’imbarazzante trovata della distribuzione italiana che, decisa a solleticare i pruriti del pubblico con una facile concentrazione sull’atto voyeuristico del protagonista, nel titolo imposto alla copia in circolazione nelle sale nostrane ha così travisato in maniera imperdonabile l’originale. Che col suo Desde allá (letteralmente «da lontano» in spagnolo) riassumeva in maniera sinteticamente efficacissima non solo il tipo di relazione che lega i due personaggi principali, ma anche la distanza sociale che li separa e il modo che Armando ha di interagire col mondo che lo circonda.

Trama

Nella Caracas dei giorni nostri un odontoiatra di mezza età adesca giovani prezzolandoli solo per il gusto voyeuristico di goderne della bellezza ma evitando con loro ogni forma di contatto. Ma quando con uno di loro le cose si complicano perché s’instaura una strana forma di affetto reciproco basato su due diversi sensi di emarginazione emotiva, tutto cambia all’improvviso ribaltando i precari equilibrii della relazione per arrivare a un finale inatteso.


di Redazione
Condividi