The Look of Silence

A Venezia 71 (nel 2014) aveva conquistato il Gran Premio della Giuria  e numerosi altri premi non ufficiali, tra cui quello della FIPRESCI, Segnalato tra i “Film della Critica” dal SNCCI, The Look of Silence, insieme al pluripremiato  The Act of Killing (2012),  compone un dittico unitariamente concepito dal regista  Joshua Oppenheimer.
Il film racconta le tragiche vicende del genocidio perpetrato in Indonesia dai militari sostenuti dagli USA e da altre potenze occidentali  tra il 1965 e il 1966.  Il  “lavoro sporco”, affidato a numerose bande paramilitari sarebbe costato, secondo le stime più attendibili, ma per difetto, un milione di morti, presunti “comunisti”, ma che nella realtà erano per la maggior parte semplici contadini analfabeti.

Ancora una volta, dietro le astratte statistiche degli stermini di massa, Oppenheimer racconta storie di uomini e donne in carne e ossa. Formatosi negli USA, il regista  vive da tempo in Danimarca, ma proviene da una famiglia ebrea segnata dalle purghe naziste. Al di là degli intrecci con il vissuto personale,  il suo è un progetto di ampio respiro – etico, estetico, ma anche politico e mediatico – che non ha caso vede, come già per il film precedente Werner Herzog ed Erol Morris (due che di cinema del reale si intendono assai), nel ruolo di produttori esecutivi. L’interesse per la società e gli scenari politico-economici indonesiani di Oppenheimer risale infatti a molti anni fa, a quel mediometraggio del 2003 – The Globalization Tapes – che denunciava le condizioni di miseria e schiavitù dei lavoratori e delle lavoratrici di olio di palma indonesiani, in molti casi figli e nipoti delle vittime stesse del  genocidio. Sottrarre i carnefici (i protagonisti di The Act of Killing) all’impunità e sottrarre le vittime  e i loro familiari (i protagonisti di The Look of Silence) all’anonimato. Era questa,  sin da allora, la duplice “missione” del regista (e delle associazioni locali dei diritti umani che lo hanno affiancato), che adesso si compie attraverso due opere che a differenza di altre non parlano del passato ma del presente, ritraendo e rivelando al mondo un sistema di potere  – fondato sulla paura –  che ha continuato a riprodursi e a governare indisturbato l’intero paese sin dal tempo di quei massacri; un sistema contro il quale non solo non vi è stata alcuna  Norimberga, ma nemmeno alcun processo giudiziario comune. In quel documentario del 2003 (al momento in cui scriviamo liberamente reperibile in rete) i contadini intervistati rivelavano,  del resto,  la connessione  profonda, 40 anni dopo il golpe, tra la loro mancanza assoluta di diritti e dignità al potere delle multinazionali e dei  loro “caporali” mercenari e, più in generale, a quello delle classi dominanti del Paese e dei loro “gangster” (due dei quali erano i protagonisti di The Act of Killing, film in cui il vice-Presidente indonesiano in persona  glorifica le loro gesta).

E’ sempre dalle riprese di quel film di dodici anni fa che nasce l’incontro del regista con la famiglia di Adi, protagonista oggi di The Look of Silence. Insieme a lui, per lunghi anni, Oppenheimer è andato alla ricerca sia degli assassini (rintracciando e intervistando decine di essi) che dei sopravvissuti e delle loro famiglie. Davanti all’ “occhio esterno” della camera queste persone hanno improvvisamente rotto il muro della paura, così come gli aguzzini del fratello avevano accettato di “mettere in scena” (persino, assecondando una geniale intuizione registica, secondo gli stilemi di differenti “generi” cinematografici, con esiti ora stranianti ora grotteschi) quegli atti di violenza estrema, di per sè indicibili e irrappresentabili. Essendo nato nel ’68, Adi non aveva sperimentato direttamente i massacri in cui era stato ucciso suo fratello.  Quando (insieme agli spettatori di The Look of Silence) rivede, impietrito e quasi ipnotizzato dal disgusto,  gli assassini del fratello far “rivivere” sullo schermo quella morte atroce, decide, con il regista, di andare a trovarli e porre loro le domande di verità e giustizia mai poste da nessuno. Adi fa l’ottico nel suo villaggio e il suo mestiere, oltre che la chiave per “agganciarli” con un controllo gratuito della vista, diventa la metafora perfetta di un cinema che “mette a fuoco” la Storia, ma anche le storie individuali.

Nel secolo appena trascorso, diversi regimi nazionalisti e totalitari hanno pianificato lo sterminio di interi popoli e gruppi etnici  (proprio quest’anno ricorrono i cent’anni dall’inizio del lungo genocidio degli armeni). Ma nello stesso secolo – il “secolo del cinema”  – tanti documentaristi sono riusciti, specie negli ultimi decenni, a ricostruire e raccontare non solo la violenza efferata ma anche la rimozione e l’omertà collettive che spesso hanno preceduto e accompagnato i disegni di dominio e sopraffazione su larga scala (a volte vi è riuscita anche la fiction, pensiamo al Michael Haneke de Il nastro bianco). In tanti casi strumento di propaganda del potere, il cinema è stato però anche un resistente veicolo della memoria collettiva. Una memoria “ostinata”, che ha ridato voce ai sopravvissuti e ai testimoni, anche marginali, come nell’immenso affresco della Shoah di Claude Lanzmann (Shoah, 1985), ma ha anche saputo ricercare l’”immagine mancante” – che non è un’immagine specifica o la tessera decisiva di un puzzle, ma l’indagine stessa, resa possibile dal Cinema, secondo la lezione magistrale di Rithy Panh (che dagli anni ’80 in poi ha tolto il velo da un altro genocidio, quantitativamente persino maggiore, quello della follia assoluta dei khmer rossi nella Cambogia di Pol Pot). Il cinema di Oppenheimer prosegue sulla scia di quegli insegnamenti offrendoci un  cinema capace di ascoltare e decifrare anche i silenzi e che dà agli spettatori e persino alle vittime il coraggio di guardare in faccia gli assassini; un cinema, come diceva Rithy Panh,  “ad altezza d’uomo”.

Il viaggio di Adi sarà il viaggio per ritrovare non solo il fratello, ma simbolicamente tutti i morti, inghiottiti nel vuoto temporale di quella rimozione di massa. In questo viaggio, il figlio non esiterà a porre domande scomode anche alla madre, ormai centenaria, che della rimozione per la morte del figlio, porta insieme al marito ormai cieco e malato, il dolore più sordo e interiore.

Attraverso the act (ma si potrebbe dire il play, la teatralizzazione della violenza) che innerva il  primo film,  ma ancor più profondamente attraverso la comunicazione, verbale e soprattutto  non-verbale, di The Look of Silence, i fantasmi del passato riemergono e si materializzano, catarticamente per le vittime, come osceno contrappasso per i torturatori e le loro famiglie. Allora, in piani sempre più ravvicinati,  in una prossemica che annulla quasi, e pericolosamente,  le distanze fisiche tra Adi e i suoi interlocutori, vediamo ed “osserviamo” i gesti nervosi, la mimica ora seduttiva ora difensiva degli assassini, e soprattutto i loro silenzi  (proprio dello sguardo il silenzio ha bisogno per essere compreso a fondo, come ci spiega Emanuela Mancino nel suo saggio Il segreto all’opera. Pratiche di riguardo per un’educazione del silenzio, Mimesis, 2013).

Non di rado però il risveglio delle colpe, per le azioni come per le menzogne, genera reazioni minacciose. Sentiamo spesso nel film i carnefici minacciare l’operatore e – indirettamente – Adi per “aver tradito la loro fiducia”. Anche a casa nostra, le vicende reali oltre che le narrazioni “di mafia” ci hanno abituato da tempo a questi comportamenti. Aver realizzato questo film ha imposto ad Adi e alla sua  famiglia il  trasferimento in un luogo molto lontano dalla loro residenza e, come già per il primo film, la cautela dell’anonimato per buona parte della troupe indonesiana del film e per la produzione locale. Ma forse, grazie anche alla forza del cinema, le vittime hanno finalmente rialzato la testa e ripreso in mano il proprio destino, ben sapendo che “chi ha paura muore ogni giorno”.

 

Trama

 

Indonesia: tra il 1965 e il 1966 il generale Suharto prende il potere e dà il via a una delle più sanguinose epurazioni della Storia. Con la complicità e il supporto dell’esercito indonesiano, gruppi para-militari massacrano oltre un milione di persone, tra comunisti, minoranze etniche e oppositori politici. Nato nel 1968, Adi non ha mai conosciuto suo fratello, mutilato e ucciso barbaramente. Il regista Joshua Oppenheimer, che già aveva rotto i silenzio sul genocidio indonesiano con il suo acclamato The Act of Killing scioccando pubblico e critica di tutto il mondo, porta Adi a incontrare e confrontarsi con i responsabili di quell’atroce delitto.


di Sergio Di Giorgi
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