Selma. La strada per la libertà

Scene di scherzosa complicità tra un marito e una moglie, come spaesati dentro una moderna camera d’albergo. La macchina da presa li segue in lenti piani ravvicinati spiandone  l’inquietudine nei gesti e nelle parole. Martin Luther King  (l’attore britannico David Oyelowo) e la moglie  Coretta Scott (Carmen Ejogo) sono molto lontani da casa, addirittura a Stoccolma, ma è troppo tardi per tornare indietro. Li vediamo seduti e un po’ impacciati sullo sfondo della cerimonia per  la consegna del Premio Nobel per la pace 1964.  Ma quando King è chiamato sul palco la sua voce risuona calda e ferma, con la tipica enfasi sulle prime sillabe di ogni parola (particolare  certo poco apprezzabile nella versione doppiata). In dissolvenza entriamo all’interno di una chiesa dove alcune ragazzine vestite a festa scendono una  scala di legno parlando spensierate tra loro; una fortissima esplosione, un lungo ralenti dei loro abiti fluttuanti, infine una ripresa dall’alto inquadra la morte e la distruzione (a essere evocato è l’odioso attentato di Birmingham, Alabama, del settembre 1963, pochi giorni dopo il  grande raduno di Washington e  l’indimenticabile discorso del pastore King, quello di “I have a dream”).

Sono i primi cinque minuti di Selma, ma in questo incipit l’afro-americana Ava DuVernay (classe 1972) già condensa il duplice volto del film, che pur nella classica confezione da simil biopic epico contiene numerose tracce del suo segno autoriale di regista indipendente (con all’attivo, oltre a esperienze come giornalista e distributrice, alcuni documentari musicali e due lungometraggi low budget). Sicuramente un dato non scontato, questo, per una produzione semi-indipendente ma comunque con notevole dispendio di mezzi (tra i produttori e maggiori sponsor del progetto anche Oprah Winfrey, qua pure attrice), che ha raccolto solo due nomination all’Oscar (come miglior film e per la  canzone originale, Glory, di John Legend,  già insignita a gennaio del Golden Globe).

Forse è anche merito della sensibilità femminile della regista, oltre che della passione legata a ragioni culturali (la sua famiglia è originaria proprio dell’Alabama) se le pause di raccolta intimità tra i due coniugi che  punteggiano il film illuminano anche l’uomo, oltre che il personaggio pubblico, King. In modo speculare, la solida sceneggiatura di Paul Webb interrompe con più distesi momenti riflessivi – nei quali radicale strategia della non-violenza costringe i protagonisti a interrogarsi  sul da farsi – il crescendo dinamico e drammatico delle vicende narrate. Vicende che raccontano la fase decisiva della battaglia per i diritti civili della popolazione di colore d’America: i numerosi tentativi infruttuosi e infine il successo della storica marcia dalla  Selma a Montgomery (capitale dell’Alabama) che ebbe luogo  dal 21 al 25 marzo 1965,  giusto 50 anni fa.

Potendo contare su un cast ricco e sempre credibile nei ruoli principali come in quelli secondari, che rafforzano la sua dimensione corale, il film mescola puntuale ricostruzione storica e romance, intrecciando i diversi scenari e le diverse partite, dalla Casa Bianca allo Stato dell’Alabama, dai media all’establishment religioso, su cui gioca con grande carisma e abilità tattica il reverendo King. Nella temperie storica di una nazione scioccata dall’assassinio di Kennedy e resa paurosa dalla nascente escalation del conflitto vietnamita gli interlocutori principali di King sono da una parte l’allora Presidente Lyndon Johnson (Tom Wilkinson), che pure aveva firmato nell’estate 1964 il Civil Right Act, ma appare riluttante di fronte all’obiettivo principe del movimento, l’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini di colore; ma anche il governatore segregazionista dell’Alabama George Wallace (Tim Roth, superbo come sempre);  dall’altra, sono evocati i difficili rapporti tra King e il leader e attivista Malcom X (che sarebbe stato ucciso da lì a poco, nel febbraio 1965), come pure con le diverse anime, religiose e laiche, del movimento.

La difficile e paziente scelta della non violenza sarà alla fine vincente. Proprio la brutalità inaudita della repressione autorizzata dal governatore Wallace nel “Bloody Sunday” – con cittadini e sacerdoti, anche bianchi, inermi, picchiati e uccisi – che interrompe i programmi tv ed entra nei salotti, nei diners, nelle chiese dei bianchi determinerà, insieme ai racconti della stampa democratica, l’inversione di tendenza e il successo trionfale della marcia, e infine il “Voting  Rights Act” che Johnson firmerà nell’agosto successivo avendo a fianco Martin Luther King. Il quale morirà pochi anni dopo, ucciso a soli 39 anni, proprio come Malcom X.

Sono passati appena 50 anni dai fatti di Selma. Ma quella che il film evoca è una storia assai più lunga di lutti, dolori, umiliazioni, rassegnazione. Se la marcia della riscossa della popolazione nera ebbe inizio nel Sud razzista e schiavista, essa si sarebbe nutrita anche della “grande migrazione” dal Sud  verso il resto degli Stati Uniti. Quel flusso incessante di milioni di migranti durato dagli inizi del secolo scorso almeno sino agli anni ’70 è un’epopea che è stata  magistralmente raccontata da Isabel Wilkerson nel  romanzo-saggio “Al calore di soli lontani” (Il Saggiatore, 2010).

Nelle immagini d’archivio della marcia che vediamo nel sottofinale, sventolano tante bandiere americane. Nel film di Spike Lee su Malcom X (1992) nelle prime scene la bandiera a stelle e strisce veniva bruciata. Ma se l’esito simbolico di quel cammino (dopo il sacrificio di leader e di tanti semplici cittadini) sarebbe in fondo stato (solo pochi anni orsono)  l’elezione alla Casa Bianca di Barack Obama, la dolorosa cronaca recente ci ha ricordato come la questione razziale e la discriminazione giudiziaria, specie negli Stati del Sud, sia ancora una ferita apertissima negli USA (e lo ricorda anche Glory di John Legend). God Bless America.

Trama

Nella primavera del 1965 una serie di eventi drammatici cambiò per sempre la rotta dell’America e il concetto moderno di diritti civili, quando un gruppo di coraggiosi manifestanti, guidati dal Dr. Martin Luther King Jr., per tre volte tentò di portare a termine una marcia pacifica in Alabama, da Selma a Montgomery, con l’obiettivo di ottenere l’imprescindibile diritto umano al voto. Gli scontri, la trionfante marcia finale e il passaggio del Voting Rights Acts del 1965 che seguirono sono ora un’incancellabile parte della storia. Ma la storia assolutamente rilevante e umana di Selma – dalle battaglie politiche negli uffici del potere, alla determinazione e alla fede della gente nelle strade, alla battaglia interiore che il Dr. King ha dovuto affrontare nel privato – non era mai stata raccontata sullo schermo.


di Sergio Di Giorgi
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