La vita oscena

Presentato nel 2014 alla Mostra del cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, La vita oscena di Renato De Maria si ispira all’omonimo romanzo autobiografico dello scrittore Aldo Nove. Il protagonista del film, che il regista sceglie di chiamare Andrea, è un adolescente sensibile e appassionato di letteratura, che ha un rapporto quasi simbiotico con la madre. Ma l’armonia e la serenità delle sue giornate piene di sole verranno man mano spazzate via da eventi drammatici: prima la malattia incurabile della madre e poi la morte improvvisa del padre. Dopo la perdita di entrambi i genitori Andrea rimarrà completamente abbandonato a se stesso, sopraffatto da un dolore e da uno sconcerto paralizzanti che lo porteranno diventare completamente abulico, e si troverà più volte – ora per scelta, ora per caso – faccia a faccia con la morte.

In seguito, grazie all’interessamento del suo professore – che ne riconosce la precoce indole poetica – potrà trasferirsi a Milano per studiare, nell’ipotesi di ricominciare una vita nuova: ma anche qui, assieme alla droga, alla solitudine e all’amore a pagamento, il pensiero martellante del suicidio sarà sempre dietro l’angolo.

Se già il libro di Nove offre una materia densa e bruciante, lo sguardo di De Maria la trasforma in immagini incandescenti, psichedeliche, che vanno a comporre un diario personale, allucinato, traboccante di sofferenza ma irrorato intimamente da una segreta linfa vitale. Quella del protagonista è infatti in un certo senso anche una lotta contro se stesso nel tentativo disperato e lacerante di restare a galla, crescere e autoaffermarsi in un mondo caotico e indifferente, trasfigurato in un turbinio di suoni e colori. Le visioni oniriche del protagonista, spesso sotto l’effetto di droghe, sono appunto l’input per una tendenza marcata ad un’estetica squisitamente pop, imbevuta di colori acidi e sonorità pastose. Dominato dalla presenza forte della voce fuoricampo del protagonista, La vita oscena è insomma una lunga, ininterrotta proiezione mentale tutta in soggettiva, dove realtà e visione si sovrappongono definitivamente, fuse assieme in un pastiche cromatico sovraccarico e abbagliante. E sono proprio queste note variopinte a bilanciare in maniera efficace il sentire cupo e tormentato del protagonista.

Come avveniva anche nel precedente Paz!, De Maria ripropone insomma delle scelte estetiche personali, ben definite, senza paura di osare o di calcare troppo la mano; la traccia narrativa sembra prendere forma quasi accidentalmente attraverso un continuo affastellarsi di fotogrammi straripanti e reiterati. E tuttavia questo specifico approccio non indebolisce il film, ma anzi lo trascina in un territorio dove la tristezza si mitiga in parte in un’amara ironia. Del resto anche certe scene decisamente oniriche dichiarano con limpidezza le loro valenze metaforiche (gli oggetti della colazione sospesi per aria, segno grafico e concreto della totale insensatezza della quotidianità, della “normalità” di fronte all’evento inaccettabile della morte); mentre l’immagine ricorrente di Andrea disteso per terra e ripreso dall’alto, con il corpo circoscritto dalla classica sagoma bianca da scena del crimine, sintetizza molto chiaramente la sua pericolosa ossessione.

Molto si gioca poi sulla fisicità dei protagonisti, a cominciare da Isabella Ferrari nei panni della madre “figlia dei fiori”, ridente, un po’ sopra le righe, il volto incorniciato da una parrucca blu. Ma soprattutto il corpo magro e asciutto del giovanissimo Clement Metayer (già protagonista dell’apprezzato Qualcosa nell’aria di Olivier Assayas) diventa specchio ed epifania di un vivere angoscioso e di una perenne inquietudine, mentre i suoi i grandi occhi espressivi, placidi, feriti sembrano costretti e condannati ad assorbire ogni cosa del mondo attorno, nel bene e nel male.

Quello di De Maria è insomma un film che sposa canoni espressivi precisi, di forte e sicuro impatto su un certo tipo di pubblico (quello che conosce e apprezza l’estetica del videoclip e del fumetto per intenderci); il suo non è il tocco raffinato e asciutto di chi scarnifica l’immagine procedendo per sottrazione e puntando alla levità e all’essenzialità, ma quello deciso e netto di un regista che, forse spinto da un’urgenza espressiva tutta tradotta in termini sensoriali, cerca di plasmare un magma visivo ribollente, mobile, corposo. E tuttavia non sembra una ragione sufficiente questa a giustificare il fatto che il film sia passato quasi inosservato a Venezia, per arrivare poi con un certo ritardo in un numero piuttosto esiguo di sale cinematografiche: perché a La vita oscena va riconosciuta anzitutto una notevole, florida libertà in termini di linguaggio, che lo diversifica da tanto cinema contemporaneo forse più levigato, più meditato, più ricercato ma  a volte anche più omologato e convenzionale.

Trama

Ispirato al romanzo biografico La vita oscena dello scrittore Aldo Nove, il film racconta la storia difficile di Andrea, adolescente che perde entrambi i genitori e si trova improvvisamente costretto a fronteggiare il proprio dolore, la propria solitudine e i fantasmi della sua mente.


di Arianna Pagliara
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