La ragazza senza nome

Una sera qualsiasi, lo squillo di un campanello cambia per sempre la vita di Jenny Davin, giovane donna che dedica la sua vita alla professione medica. Jenny non apre la porta, ignora il parere del suo giovane aiutante e le sue stesse sensazioni, si affida alla logica: in fondo l’orario di chiusura è passato un pezzo, lo squillo è stato uno solo, di certo non era un’emergenza. Ma a suonare il campanello, si scoprirà poi, era una giovane donna in fuga, disperata, che poi è morta in circostanze drammatiche. La ragazza non aveva documenti, nessuno ha reclamato il suo corpo all’obitorio. Jenny, oppressa dal senso di colpa per non averle aperto, lotta per darle almeno un nome. E così facendo finisce per condurre una vera e propria indagine. Mostra in giro la foto della vittima, fa domande ai pazienti, rischia di mettersi nei guai, dà fastidio alla polizia. Ma imbocca la pista giusta, quella che darà almeno la dignità post mortem alla giovane donna sconosciuta e a lei stessa la pacificazione interiore.

E’ un noir, anche se non esplicitamente dichiarato e “fuori genere”, l’ultimo film dei Dardenne, presentato allo scorso Festival di Cannes. E’ la cronaca asciutta e commossa insieme di una “detection” che prende le mosse da un profondo senso di colpa e da un bisogno di passare all’azione per superare l’indifferenza, non solo la propria. Con molta naturalezza i due sceneggiatori belgi ci mostrano la vita quotidiana della dottoressa che cura poveri diavoli e anziani soli e nel contempo non abbandona neppure per un istante la missione che si è data, facendo domande, facendo attenzione ai particolari, lavorando sui sintomi dei propri pazienti, mettendo in gioco l’empatia. E’ un noir atipico, lineare, senza colpi di scena, ma non per questo meno intenso. I Dardenne sanno scavare magistralmente nelle piccole scelte quotidiane che possono portare a un crimine. Perché la vicenda della ragazza sconosciuta non è un giallo mozzafiato ma una piccola storia ignobile, cruda e verosimile. E il percorso che porta alla verità è costellato di tristi bugie, di gesti insensati, di giornate fredde, thermos di caffè e cialde appena preparate da mani tremanti per troppo alcool. E viene da pensare che Liegi, alla cui periferia è ambientato il film, è la città di Simenon, cantore di detective empatici e assassini umani troppo umani. “La ragazza senza nome” è probabilmente un film molto più simenoniano di quanto possa apparire a prima vista. Ed è parte del suo fascino, spoglio e al tempo stesso elegante. Merito anche di una eccellente protagonista, Adèle Haenel, la cui bellezza risplende ancora di più senza bisogno di trucco e con un vecchio giaccone a quadri costantemente buttato addosso. A lei tocca anche il mistero di un personaggio di cui non si sa praticamente nulla, se non il suo senso del dovere e l’amore per il proprio lavoro. Non a caso la ricerca dell’identità della giovane donna morta diventa per lei un’occasione di crescita e di cambiamento. Jenny capisce che in quella sera cruciale ha agito anche per imporsi con il suo aiutante e che per lei, più che le possibilità di carriera, conta il lavoro di ogni giorno in ambulatorio con pazienti che appartengono alle fasce più deboli della popolazione.

Quindi con La ragazza senza nome i Dardenne in realtà non abbandonano il cinema sociale. Anzi, entrano una volta di più nel vissuto di chi lotta ogni giorno per sopravvivere, con più o meno dignità, con più o meno speranza. Per sottolineare ancora di più il legame con il loro cinema precedente, i due registi belgi affidano ruoli grandi e piccoli ad alcuni dei loro attori feticcio, come Jéremie Renier, Olivier Gourmet, Fabrizio Rongione. Un cast molto bene assortito, che si muove attorno alla protagonista, fragile solo in apparenza, determinata, incrollabile, una vera e propria eroina noir, perfino con un tocco hard boiled. Ci piace. Molto.

TRAMA

Chi è la ragazza di origine africana trovata cadavere lungo il fiume? E come è morta? A indagare su questo fatto di cronaca non c’è solo la polizia di Liegi, ma anche la giovane dottoressa Jenny Davin. Lei non ha mai conosciuto la vittima, ma ha scoperto che a suonare invano al campanello del suo studio, una sera, era stata proprio quella ragazza, morta poco dopo. Il senso di colpa spinge Jenny a cercare di dare almeno un nome alla vittima.


di Anna Parodi
Condividi