La donna che canta – Incendies

Un paesaggio brullo e assolato, dominato da una palma; un lento movimento panoramico all’indietro, a scoprire un interno spoglio pieno di adulti e bambini in uniforme da soldato; un primo piano sul volto e sullo sguardo pieno di rancore e solitudine di un bambino. Uno stacco poi ci porta nello studio moderno di un notaio che legge a un giovane e a una giovane  (che scopriremo  essere due fratelli  gemelli) le volontà testamentarie della loro madre. Basterebbe quest’incipit per comprendere quanto  La donna che canta (Incendies) sia un film che incastra con grande sicurezza piani spazio-temporali e livelli di lettura diversi. Una conferma della maturità stilistica raggiunta oggi da Denis Villeneuve, regista canadese (del Quebec) nato nel 1967, che dopo alcuni corti e documentari e un paio di lungometraggi aveva presentato alla Quinzaine di Cannes nel 2009 Polythecnique, una docu-fiction che rievocava l’uccisione di 14 studentesse universitarie ad opera di un folle occorsa a Montreal nel 1989. Non a caso La donna che canta, già premiato in diversi festival (ed anche alle “Giornate degli Autori” di Venezia) è ancora nella short list dei candidati all’Oscar 2011 come migliore film straniero.

Nell’adattare, sfrondandolo al massimo in favore di  una nitida visione cinematografica, un testo teatrale dell’esule libanese Wajdi Mouawad, il regista -già partecipe di una complessa realtà multiculturale quale quella canadese- affronta un tema -la “questione palestinese” nel complesso scacchiere mediorientale- che  da tanti decenni è a sua volta una delle narrazioni simboliche cruciali di uno scontro più ampio del mondo contemporaneo, che in molti chiamano ed alimentano come “guerra tra civiltà”.

Per spezzare la catena della violenza, di cui è stata vittima ma anche protagonista, Nawal Marwan (un’intensa Lubna Azabal) affida ai suoi figli, cresciuti in Canada,  il compito di cercare il loro padre e un altro fratello, ovvero i due dolorosi segreti che hanno segnato la sua vita, e di cui essi erano rimasti ignari. Ma ora è il momento di conoscere e  accettare su  se stessi le “identità plurali” di cui parlano i sociologi. Sarà la figlia Jeanne (Mélissa Désormeaux-Poulin, convincente la sua prova)  a raccogliere per prima la sfida, incoraggiata dal professore universitario di matematica pura di cui è brillante assistente. Ha bisogno di un punto di partenza per affrontare un viaggio pieno di incognite ancora più complesse di quelle dei teoremi che studia. Lo troverà. Ed eccola a Daresh, in quel Libano che da metà degli anni ’70 ai primi anni ’90  fu sconvolto dai massacri di una terribile guerra civile (senza peraltro aver mai ritrovato la pace), ripercorrere 35 anni dopo le strade materne, alla ricerca della  memoria familiare e personale,  dunque della sua identità. E’  un doppio e speculare racconto, un fluido montaggio parallelo che dipana  in un flashback che ha la stessa forza di eterno incombente presente le tragiche vicende della madre: la sua relazione con un palestinese rifugiato nei campi profughi, il ripudio da parte della famiglia che la costringe ad abbandonare il figlio appena nato, e che cercherà invano tutta la vita, rischiando la morte, divenendo, lei cristiana,  l’assassina di un leader delle falangi cristiane, sperimentando  15 anni di carcere in isolamento, resistendo alle torture e agli stupri. L’occhio del regista  non risparmia nulla allo spettatore, ma senza mai una sola inquadratura gratuita o prolungata. Anche la fotografia di Andrè Turpin cattura con efficacia il caos della guerra e la violenza accecante del sole nel set mediorientale (in realtà giordano), come le ordinate e grigie prospettive cittadine del set canadese. Man mano che Jeanne (poi raggiunta anche dal fratello e dal notaio che era anche il datore di lavoro della madre)  ritrova i fili di indicibili segreti  (che lasciamo ovviamente allo spettatore scoprire), la vicenda storica scivola sullo sfondo e il racconto si fa inesorabile, come una tragedia greca. Della tragedia greca assume anche lo spessore di discorso universale e il precipitare degli eventi verso il climax, in un drammatico crescendo  emotivo che fa perdonare le forzature narrative del finale. Un film comunque  importante, e un autore da seguire.


di Sergio Di Giorgi
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