La città ideale

Michele Grassadonia è un fervente ecologista. Molto tempo fa ha lasciato Palermo per trasferirsi a Siena, che lui considera, tra tutte, la città ideale. Da quasi un anno sta portando avanti un esperimento nel suo appartamento: riuscire a vivere in piena autosufficienza, senza dover ricorrere all’acqua corrente o all’energia elettrica. In una notte di pioggia, Michele rimane coinvolto in una serie di accadimenti dai contorni confusi e misteriosi. Da questo momento in poi, la sua esperienza felice di integrazione gioiosa nella città ideale comincerà a vacillare.

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L’opera prima da regista di Luigi Lo Cascio si presenta talmente solida in ogni suo aspetto, dalla scrittura allo stile di ripresa e di montaggio, per non parlare della straordinaria prova degli attori, a partire ovviamente dal protagonista interpretato sempre da Lo Cascio, da far pensare a un autore particolarmente maturo. Addirittura si ha l’impressione, ascoltando i dialoghi estremamente accurati e densi, di trovarsi di fronte a un film tratto da un bel testo letterario o teatrale. Ragione in più per apprezzare una sceneggiatura originale firmata dall’attore-regista, che ben supporta un film che comincia come una commedia per trasformarsi in un giallo morale. Di più: in una parabola straniata sull’Italia contemporanea, anzi sul mondo contemporaneo, che si sviluppa come acuta indagine sul rapporto tra etica e diritto, verità individuale e regole perverse di convivenza. Il protagonista, convinto e ortodosso assertore di comportamenti socialmente utili ed ecologicamente sostenibili, potrebbe a prima vista sembrare un individuo sopra le righe, un eccentrico cittadino modello, che combatte solitariamente l’uso sconsiderato di fonti energetiche, il malcostume di chi sporca quotidianamente gli spazi pubblici e l’inciviltà di chi sul luogo di lavoro non rispetta regole elementari. Ma le conseguenze giudiziarie che stravolgeranno la sua esistenza dimessa e alternativa ai modelli dominanti dimostreranno piuttosto come la sua piccola crociata ecologista non è altro che il lato più visibile e forse più scoperto di un’onestà intellettuale “a rischio” in un sistema compromesso, in cui domina la regola del sospetto, si insinuano latenti e sinistre tentazioni inquisitorie, si smarrisce il confine tra diritto e ragione, accusa e difesa, civiltà e abuso, informazione e disinformazione.

(Anton Giulio Mancino)

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Luigi Lo Cascio, nato a Palermo, studia recitazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Nel 2000 esordisce al cinema interpretando I cento passi di Marco Tullio Giordana, che lo dirigerà ancora in La meglio gioventù (2003). Per il teatro, scrive e interpreta il monologo Nella tana (2005), partecipa a Il silenzio dei comunisti di Luca Ronconi (2006) e mette in scena La caccia (2008). Al cinema ha lavorato con registi come Giuseppe Piccioni, Cristina Comencini, Roberta Torre, Pupi Avati, Giuseppe Tornatore e Mario Martone.

NOTE CRITICHE di Mariella Cruciani

La città ideale, esordio alla regia dell’attore Luigi Lo Cascio, è un film notturno, onirico, spiazzante: per raccontare la vicenda umana di Michele Grassadonia, fervente ecologista che, dopo un misterioso incidente si ritrova a mettere in dubbio se stesso e le precedenti certezze, il neo-regista sceglie, infatti, situazioni e atmosfere in bilico tra Kafka e Beckett. Il risultato finale è un’opera prima sospesa e carica di inquietudine, attraverso la quale Lo Cascio sembra voler superare i limiti del realismo per approdare alla riflessione metafisica. In questo senso, il film ricorda molto una pellicola ingiustamente sottovalutata di Giuseppe Tornatore: Una pura formalità (1993).

Anche in quel caso, al centro dell’opera era l’identità di un uomo ( Gerard Depardieu) e lo spettatore era spinto a chiedersi se costui fosse, o meno, il responsabile di uno strano omicidio o se, viceversa, fosse vittima di un errore giudiziario. Entrambi i film generano in chi guarda un sentimento angoscioso che Freud ascriverebbe alla sfera del “perturbante”: “perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”. La tensione di La città ideale nasce da qui, dall’identità tra quotidianità e potenziale “follia”: Michele Grassadonia, come Michele Apicella in Bianca (1984) di Nanni Moretti, ricerca ossessivamente verità e perfezione ma, proprio per questo, rischia di disumanizzarsi (“Mi sembri un robot” – gli dice la madre).

Scrive Calvino ne Il Visconte dimezzato, a proposito della metà buona: “Con questo esile figuro ritto su una gamba sola, nerovestito, cerimonioso e sputasentenze, nessuno poteva fare il piacer suo senza essere recriminato (…). Delle due metà è peggio la buona della grama…”. E conclude: “Così passavano i giorni a Terralba e i nostri sentimenti si facevano incolori e ottusi, poiché ci sentivamo come perduti tra malvagità e virtù ugualmente disumane”. Dovrebbe, a questo punto, esser chiaro che fulcro del film è il protagonista e gli interrogativi che evoca: “Chi è Michele Grassadonia? Un maniaco di intransigenza o un essere umano autentico? Un uomo virtuoso calunniato o, semplicemente, un “pazzo”? E cos’è La città ideale? Una dichiarazione di malessere? O di purezza e di disarmato candore nei confronti di una realtà sporca? Allo spettatore l’ardua sentenza!

(Mariella Cruciani)


di Redazione
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