Knight of Cups

Rick (Christian Bale) è uno sceneggiatore in crisi – creativa, emotiva, esistenziale – in una Los Angeles ammaliante e vacua. Vagando stancamente e distrattamente tra euforici party e set cinematografici deserti, accumula capricciosamente instabili relazioni sentimentali e cerca di appianare i rapporti problematici con il fratello e la ex-moglie.

Knight of Cups – penultimo film del grande regista americano Terrence Malick, arrivato nelle sale italiane con estremo ritardo – è insomma la descrizione inebriante e frammentaria di un’impasse, di una scissione interiore, è la fenomenologia di uno smarrimento totalizzante e del tentativo doloroso di uscire dalle tenebre per ritrovare finalmente la strada verso la (propria) luce.

Il filo rosso che tiene assieme il caleidoscopio pulsante di immagini e suoni di cui il film si compone è presto rivelato dalla voce fuori campo – costante irrinunciabile del cinema malickiano – che, citando l’Inno alla Perla da Gli Atti di Tommaso, riassume il senso ultimo della crisi del protagonista in una fiaba chiaramente metaforica. Si racconta infatti di un principe che, mandato in cerca di una preziosissima perla, beve da una coppa un liquido misterioso e dimentica così la propria missione e perfino se stesso e il proprio nome. Sedotto dalle lusinghe di un mondo fatuo e corrotto da piaceri effimeri, il “cavaliere di coppe” si muove insomma in un ingannevole labirinto del quale sarà arduo trovare la via d’uscita.

Stilisticamente il film ribadisce a chiare lettere – al pari del precedente To the Wonder – la sua filiazione dall’acclamato The Tree of Life, tassello fondamentale nel percorso del regista texano. La sostanziale continuità che caratterizza queste tre opere di Malick la si rintraccia soprattutto nella radicalità con cui l’autore ribadisce la sua predilezione per un cinema debordante, liminale, essenzialmente poetico e antinarrativo, che preferisce la contemplazione all’azione. Sono tendenze, queste, che da La sottile linea rossa in poi hanno reclamato sempre più spazio fino a diventare decisamente preminenti, facendo del cinema malickiano un territorio assieme visivo e filosofico, in cui l’immagine segue le direttrici dell’astrazione per farsi traduzione immediata del pensiero e del sentire. Tutto questo si concretizza in una rivoluzione del linguaggio e della grammatica filmica che è in fondo anche il segno di una rivendicazione: quella dell’oggetto-film di sconfinare nell’altro da sé, ora frammentandosi e implodendo, ora traboccando e tracimando, ora denudandosi per divenire pura visione. In questo senso, l’interrogazione e l’indagine della realtà divengono interrogazione e indagine del cinema, come forma espressiva e come linguaggio.

Se questo approccio si armonizza senza strappi e scarti con quei film che, viste le tematiche trattate,  possiedono un respiro per così dire “cosmico” – The Tree of Life e il recente Voyage of Time – più complesso e sottile è il discorso per Knight of Cups che, al pari di To the Wonder, delimita il suo campo d’indagine a una dimensione (apparentemente) circoscritta e contingente. E tuttavia è proprio attraverso questa realtà particolare che Malick, come gli è consono, fa filtrare l’universale. E’ sulla base di questi presupposti che il regista spinge a margine i singoli eventi della vita di Rick – di cui si carpiscono solo confusi brandelli, si intuiscono gli echi – per concentrarsi invece sul suo sentire, descritto attraverso lo sguardo espressionisticamente distorto di una macchina da presa in costante movimento. Facendo leva su un tipo di comunicazione più sensoriale che intellettiva, il film impone in ultimo allo spettatore di sovrapporre il proprio punto di vista con quello del protagonista. E’ un cortocircuito, questo, che può attuarsi solo a patto che chi osserva sia aperto, disponibile a un’immersione completa e profonda dentro il personaggio, perché in sintesi è questo che reclama il trascinante e intenso cinema di Malick: un abbandono quasi mistico, un atto di fede.

Trama

Rick è uno sceneggiatore che attraversa una fase di crisi creativa ed esistenziale. Il film ne segue il girovagare distratto e svogliato tra party e set cinematografici in una fatua e abbagliante Los Angeles.


di Arianna Pagliara
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