Il cerchio

In Iran il primo vagito di una neonata è già un grido che, soffocato, sommesso accompagnerà per sempre la sua condizione di donna. Un orizzonte circolare si chiude sulle esistenze raccontate da Jafar Panahi che accompagna ciascuna delle sue protagoniste in un doloroso ma fiero peregrinare.
Storie di donne che il regista racconta con la sua consueta eleganza, seguendo con la macchina da presa i loro percorsi che si incrociano in un simbolico passaggio di consegne.

Per descrivere l’atmosfera di un paese dove alla donna sono negate le libertà più elementari, Panahi sceglie una narrazione circolare, efficacemente metaforica che cristallizza il dolore in una lacrima o in un livido ed esprime la rabbia in una sigaretta “proibita” o nell’audacia di un sorriso beffardo.
Senza sapere nulla del passato delle protagoniste, assistiamo alla messa in scena del loro doloroso presente che prelude ad un futuro non meno angoscioso. Quando la porta della cella si chiude ciascuna di loro ha percorso i corridoi di un comune labirinto chiudendo, inesorabilmente, il cerchio di una perenne prigionia.

Un film non solo sulle donne ma, più universalmente, una riflessione sull’assurdità di ogni ingiusta reclusione, di ogni sopruso arbitrario e senza causa.
Panahi non si concede alla pietà, piuttosto mostra, sottolinea, denuncia con la fermezza di una dignità che converte il grido in uno sguardo affilato che arriva dritto alle coscienze.

Eleonora Saracino


di Redazione
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