Fortapasc

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marco_risi_fortapasc_1A due anni di distanza da Maradona. La mano de Dios e dopo la miniserie televisiva L’ultimo padrino, Marco Risi torna sugli schermi cinematografici con Fortapàsc, film incentrato sugli ultimi mesi di vita di Giancarlo Siani, giovane giornalista de «Il Mattino» di Napoli, ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985. Si può subito affermare che si tratta di un film ragguardevole sotto più punti di vista. Uno dei suoi meriti maggiori risiede nel fatto che il ritratto del protagonista (un ottimo Libero De Rienzo) non scade mai in una oleografica figurina, né tantomeno si appoggia a facili inclinazioni “monumentalistiche”. Il regista ci illustra tanto la dimensione di Siani ragazzo, quanto quella di Siani giornalista, che in fin dei conti non si prestano ad una scissione netta e precisa. Vediamo Giancarlo, ventisei anni, di buona famiglia, residente al Vomero, quartiere bene di Napoli, che lavora per «Il Mattino» come corrispondente precario da Torre Annunziata, per essere poi successivamente “promosso” alla sede centrale della città partenopea. Un ragazzo normale, che ha una bella fidanzata (Valentina Lodovini) e una forte amicizia con un collega (Michele Riondino), che si diverte, che gioca a fare il latin lover, che si comporta come tanti altri suoi coetanei. Ma Giancarlo ha anche il “difetto” di essere terribilmente curioso e soprattutto quello di intendere il lavoro di giornalista, non solo come qualcosa di molto importante, ma soprattutto come un vero e proprio dovere etico; proprio per questo verrà fatto fuori dalla camorra, la sua “colpa” è quella di aver raccontato o meglio ipotizzato fatti indicibili, di aver ficcato il naso in faccende scomode, rivelando esecrabili scenari che vedono coinvolta anche la politica.

Il richiamo del titolo risuona tutt’altro che ironico: è una realtà davvero infame e marcia quella che viene portata sullo schermo, una realtà dove le istituzioni vacillano e in particolar modo è la loro credibilità che viene meno, mentre enormi sono le responsabilità. Ecco allora le strade di Torre Annunziata (la “Fortapàsc” del titolo appunto) che in un attimo si trasformano in una macelleria all’aperto, con morti ammazzati sparsi in ogni angolo. In un mondo così degenerato, in questa moderna riserva urbana, ma che di civile ha ormai ben poco, Siani non può che restare solo. Risi sembra voler evidenziare l’elevata caratura morale del protagonista, la sua non appartenenza allo squallore che lo circonda, anche attraverso la sua fisicità, il suo volto pulito, quasi da ragazzino, l’espressione un po’ ingenua a cui fanno da agghiacciante contraltare le facce sporche e bestiali della malavita organizzata o quelle tutte ipocrisia e sorrisini di politici locali, come ad esempio il sindaco, interpretato da Ennio Fantastichini. E le due scene parallele che incorniciano i pezzi grossi della camorra e i membri del consiglio comunale nelle loro rispettive e poco decorose riunioni, oltre che rappresentare un omaggio a Le mani sulla città di Rosi, hanno un immediato e forte valore rappresentativo. Il regista, confermando la sua vocazione di abile narratore e acuto osservatore sociale, si affida a una solida sceneggiatura, di cui è coautore, a validi interpreti, a un montaggio nervoso e a tonalità di colore livide per raccontare una storia relativa a fatti risalenti a più di venti anni fa ma che manifestano sinistri legami con l’attualità. Si possono ritrovare atmosfere, caratteristiche e stilemi di suoi lavori precedenti (si pensi a Mery per sempre, Ragazzi fuori, Il muro di gomma) ma il piglio si è fatto più sicuro, più maturo e lo sguardo critico, renitente a bacchettate moraliste e sbrigative, è rimasto saldo. Non è un’ opera del tutto perfetta (e forse uno dei limiti più vistosi lo si può notare nei momenti in cui Risi, volendo usare il registro del grottesco, scade invece nel macchiettistico), ma è sicuramente un’opera importante, poiché nell’insieme riesce a coniugare contenuti scomodi e difficili con adeguate soluzioni formali. Se è vero, come ha dichiarato giustamente Risi in una recente intervista, che fare cinema civile non significa autometicamente fare buon cinema, è altrettanto vero che c’è chi riesce a unire efficacemente coscienza critica e qualità espressiva, e Fortapàsc ne fornisce una riprova.


di Leonardo Gregorio
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