Cesare deve morire

Il fatto che il docu-drama Cesare deve morire dei fratelli Taviani abbia trionfato alla 62esima edizione del Festival di Berlino regalando al cinema italiano un successo che mancava dal lontano 1991 non dovrebbe essere la sola ragione per andarlo a vedere al cinema, privilegiandolo rispetto ai tanti titoli facili che affollano le sale di questo fine settimana. Al massimo potrebbe essere un motivo in più, una spinta ulteriore a confrontarsi con un’opera intensissima e di ardua lettura per la densità di temi e di strati che la caratterizza, ma anche per il coraggio dell’operazione che ne sta alla base. E cioè l’idea di filmare tutte le fasi dell’allestimento di una tragedia scespiriana all’interno della sezione di massima sicurezza del carcere romano di Rebibbia, con le parti dei vari personaggi affidate a detenuti destinati a trascorrere all’interno di quelle mura pene a vita o comunque lunghe quanto basta per non potersene più rifare una dopo essere usciti di galera. Se poi tutte queste ragioni non bastassero, ce ne sarebbe una comunque valida in assoluto. E cioè per salutare il ritorno dietro la macchina da presa (a distanza di cinque anni da La masseria delle allodole) di due ragazzi terribili che in sessant’anni di carriera hanno scritto una delle pagine creative più importanti e durature del nostro cinema d’autore.

Tutto è nato per caso, come spesso accade ai prodotti destinati a essere successi imprevisti. Finiti casualmente a Rebibbia a vedere alcuni detenuti impegnati a recitare canti della “Commedia” dantesca, i Taviani scoprono che quegli attori sono reclusi della sezione di alta sicurezza spinti dalla passione del regista teatrale Fabio Cavalli (attivo da dieci anni all’interno della casa circondariale) a incanalare nella recitazione le pulsioni tempestose di un’esistenza negata e insieme l’ansia di esprimere nella finzione della scena la verità di tanta passione repressa “dentro”. Quando Cavalli ripropone loro il progetto di un allestimento teatrale che li impegnerà per mesi, i fratelli pisani non si lasciano scappare l’occasione e decidono di tuffarsi in un progetto di cinema-verità che documenti tutte le fasi dell’allestimento. Dai drammatici e strazianti provini per scegliere le parti al successo finale di fronte a un pubblico autentico che assiepa il teatro del carcere di Rebibbia.

La sceneggiatura a sei mani nata da questo incontro tra i Taviani e Cavalli è una riscrittura adattata ad hoc del dramma scespiriano nella quale Cavalli ha avuto l’idea geniale di attribuire un ulteriore strato di autenticità traducendo le singole battute nei dialetti di ognuno dei detenuti chiamato a interpretare una delle parti della tragedia. Col risultato di avere una doppia e intenzionale sovrapposizione tra i temi che il testo affronta (gli intrighi dei gregari contro lo strapotere dei capi, i tradimenti, la slealtà, la violenza, il coraggio, il senso dell’onore e via dicendo) e che sono inevitabilmente connessi al vissuto “vero” degli attori, ma anche il confronto che queste tematiche dolorose e autobiografiche hanno con la più intima nudità di chi le traduce in parole inevitabilmente autentiche proprio perché espresse nella lingua che ciascuno di noi imparata insieme alla vita stessa. A prevalere sono i dialetti del sud Italia perché la maggior parte dei detenuti della sezione di alta sicurezza sono reclusi per reati connessi ad attività del crimine organizzato, motivo questo che aggiunge ulteriore densità al progetto, convertendo la babele di dialetti in cui la tragedia scespiriana si dipana in una dolente colonna sonora così imprevedibilmente omogenea da dare l’impressione di essere stata la lingua originale in cui il dramma era stato scritto.

La scelta del dialetto ha un suo corrispettivo cinematografico nell’idea dei Taviani di girare buona parte del film in bianco e nero, lasciando che il colore si limiti a documentare quelle parti apparentemente “serene” in cui viene mostrato il risultato finale dell’allestimento, con gli attori che recitano di fronte al pubblico e il trionfo tributato loro a scena aperta una volta conclusa la recita. A dominare le parti più sofferte e intense del documentario è invece un bianco e nero digitale potentissimo e implacabile che indaga sui volti degli attori-carcerati mostrandoli nella nudità delle proprie vite negate a confronto con l’altezza dei versi scespiriani e il loro contenuto inevitabilmente invasivo. Al punto che alcune scene (come i provini iniziali nei quali Cavalli chiede ai potenziali candidati di declinare le proprie generalità fingendo prima di essere nel pieno di una separazione dolorosa e poi in un accesso di furore incontrollato, o ancora i molti momenti nei quali i detenuti-attori imparano le parti finendo col confondere il testo scespiriano con la tragedia delle proprie esistenze) hanno la potenza scarnificante che può avere solo il cinema quando trasforma in verità vissuta la sua eterna promessa di finzione autentica.

Se da una parte questo rapporto tra verità del vissuto e artificialità del testo teatrale con tutte le sue profonde implicazioni è di certo uno degli aspetti più complessi e ricchi dell’intera operazione, va però detto che il film non è immune dal rischio potenziale che questa lettura in sovrapposizione comporta: i pochi momenti in cui la cinepresa smette di indagare i personaggi e il loro rovello interiore a confronto con i versi scespiriani e si sofferma invece a descriverne in maniera documentaristica la semplice vita nel carcere a la dolorosa consapevolezza del “fine pena mai”, è solo in quei momenti di programmatica denuncia descrittiva che la pellicola perde potenza visionaria e si adagia nel solco del cinema a tesi che vuole mettere il dito nella piaga sfondando porte aperte come se fossero corridoi della vergogna mai percorsi prima.

Cesare deve morire non è certo una novità nel suo genere perché precedenti di film incentrati sul teatro usato come diversivo ludico all’interno delle strutture di riabilitazione di certo non mancano. Basti pensare al recente Tutta colpa di Giuda di Maurizio Zaccaro dove il pretesto di allestire un musical sulla passione di Cristo portava gli ospiti di un carcere torinese a intraprendere tramite la recitazione un percorso catartico di riflessione sul male di vivere. Il documentario dei fratelli Taviani va però più in là: in meno di un’ora e venti riesce infatti a vincere una scommessa impossibile: usare la più tragica e assoluta delle tragedie politiche per raccontare senza retorica e facili piaggerie la condizione umana di chi il vivere politico (nel senso aristotelico del termine) l’ha negato torvamente e scopre proprio attraverso i versi di un’opera teatrale incentrata su temi “altissimi” il disagio senza futuri possibili di una vita irreparabilmente mutila.

TRAMA

Tra documentario e finzione, il film ricostruisce l’allestimento del “Giulio Cesare” scespiriano all’interno della sezione di alta sicurezza del carcere romano di Rebibbia. Dai provini al successo finale, passando attraverso l’inevitabile sovrapposizione tra i temi “caldi” della tragedia elisabettiana e i casi personali e giudiziari dei detenuti che ne interpretano i vari personaggi.


di Redazione
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