A Bigger Splash

Per prima cosa, La piscina (1969) di Jacques Deray non c’entra niente. Con Bigger Splash c’entra molto invece l’omonima tela di David Hockney, nel senso che da quell’immagine sospesa, magnetica e vuota, il racconto procede a ritroso, in ralenty, e dagli spruzzi d’acqua risale ai corpi, alle storie, ai desideri e ai rancori che li hanno generati. In questo senso A Bigger Splash è un film rituale, quasi una messa laica in cui tutto è detto in premessa e tutto si svolge come conseguenza. Drammaticamente, nella tensione che sale fino al sacrificio finale; splendidamente per la straordinaria qualità delle immagini e della recitazione. Un involucro stilisticamente sovradimensionato, autonomo ed evasivo, che visibilmente contraddice la materia del racconto, piuttosto scontata: si parla solo di attrazione fisica, voglia di rivincita, istinto di sopravvivenza, banale cattiveria.  Ma il vero tema del film è la separatezza, la cecità, l’egocentrismo (sentimenti esemplari del nostro tempo) e quindi la politica, perché A Bigger Splash è un film soprattutto politico, tra i più politici che il cinema italiano sia stato capace di fare negli ultimi anni, perché allude a quello che non amiamo vedere, che si tiene in disparte o si evita, ma che sta accadendo e accadrà. Un film racchiuso in se stesso, claustrofobico (malgrado gli spazi aperti) e speculare (i personaggi sono prigionieri del loro passato, fuggono e insieme segnano il passo).

Sono un’isola dentro un’isola, sono soli con loro stessi e confusi, attratti e respingenti, alla fine senza scampo. Appunto, un film rituale e dal destino segnato. Prima scena: su una spiaggia assolata di Pantelleria, Marianne (una rock star operata alle corde vocali) e Paul, il suo giovane compagno, vedono interrompere il loro buen retiro dallo squillo del cellulare che annuncia l’arrivo di una coppia di amici (Harry e una sedicente giovane figlia ritrovata) e dall’ombra di un aereo in fase di atterraggio che li copre come un nero presagio. Ultima scena: un aereo carica a bordo una bara, sotto la pioggia. In mezzo c’è stato il gioco al massacro tra due coppie sghembe e animate da sentimenti contrapposti, da una parte i due personaggi più maturi (Marianne e Harry), alle prese con antichi rancori e desideri non sopiti, dall’altra i due giovani, che funzionano da facili esche, troppo attraenti e vulnerabili per non far saltare il banco.

Tra cene, nuotate in piscina, musica (i vinili dei Rolling Stones e le arie di Verdi) e tanto sesso, il racconto ondeggia, divaga e infine precipita verso la conclusione inevitabile. Mentre intorno trionfa la natura (la bellezza vulcanica di Pantelleria, il caldo e il vento, i serpenti che si aggirano in piscina, i gechi che cadono dal soffitto) e poi la realtà del nostro tempo, all’inizio tenuta lontana, poi sempre più nei pressi e inquietante. Pantelleria è un’isola vicina all’Africa, quindi approdo privilegiato per gli immigrati in fuga, quasi una linea narrativa parallela del film: ne sono affogati una cinquantina qualche giorno prima (ma a Lampedusa è andata peggio, dice un carabiniere), con loro c’è solo un incrocio, silenzioso e allarmato in aperta campagna, con i due giovani protagonisti, pochi attimi, poi ognuno va dalla sua parte; e alla fine, si vedono rinchiusi in una gabbia, nella piazza centrale del paese, mentre giocano con una palla che qualcuno gli ha tirato. Utili a farsi carico di qualche ingiustizia ulteriore.

Ma Luca Guadagnino sceglie di restare sui suoi quattro protagonisti, li accompagna nei loro soliloqui, con la sua macchina da presa gli sta addosso, li inquadra da sotto e in primo piano, si insinua in mezzo a loro, quasi li sospinge, a sottolineare il vicolo cieco in cui stanno, l’insoddisfazione con cui fanno i conti, il muro contro cui sbattono. In questo itinerario labirintico e ossessivo, Guadagnino dà il meglio di sé e fa sapiente ricorso alla grande lezione del cinema italiano: una processione di Viaggio in Italia (ma senza il miracolo), il girare a vuoto de L’avventura (ma con meno speranza), e poi l’ansia autodistruttiva di Sotto il vulcano, certi incanti di Picnic ad Hanging Rock. Insomma grande cinema.

Con A Bigger Splash (più ancora che con Io sono l’amore) Guadagnino gioca sui contrasti, la separatezza, anche la provocazione. Quasi presago di quella che sarebbe stata l’accoglienza al film (almeno in Italia) chiama in campo, quasi con uno sfregio, la commedia italiana più cinica e indisponibile: il “nuovo mostro” incarnato da Carmine (Corrado Guzzanti), il maresciallo dei carabinieri cacciatore di autografi e abbagliato da uno star system che può solo sognare, è un colpo da maestro, pieno di sottile e inattesa perfidia.

A Bigger Splash è film ibrido, rituale e profetico, puntualmente ignorato alla mostra di Venezia, rifiutato dal pubblico, abbastanza sottovalutato dalla critica. Come sempre in Italia, da Rossellini in poi. Peggio per noi.

TRAMA

Marianne Lane è una rockstar internazionale ricca e famosa. Dopo un intervento chirurgico alle corde vocali decide di riposarsi facendo una vacanza molto tranquilla a Pantelleria. Il tutto insieme al suo compagno, un fotografo e regista di documentari un po’ solitario e fragile. Li raggiungerà il produttore di Marianne, il quale è arriverà insieme alla figlia, una ragazza molto attraente.


di Piero Spila
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