The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca

Nato in Virginia nel lontano 1919 da una famiglia di schiavi e lui stesso lavoratore bambino in una piantagione di cotone e morto nel 2010, Eugene Allen ebbe la “fortuna” di imparare fin da piccolo l’arte di servire nelle case dei bianchi. Arte che all’epoca era conosciuta con l’infamante nome di house negro ma che, nel suo caso, rappresentò la marcia in più che gli permise di fare una carriera strepitosa in qualità di maggiordomo personale alla Casa Bianca di ben otto presidenti degli Stati Uniti.

Giunto a Washington a cercare fortuna nel pieno della Grande Depressione e sopravvissuto come maître di vari alberghi negli anni durissimi del dopo crisi e della guerra, nel 1952 ebbe la fortuna di essere assunto come maggiordomo (il butler del titolo) alla Casa Bianca, dove rimase per ben 34 anni servendo come detto otto presidenti diversi e assistendo impassibile ai profondi cambiamenti cui il paese andò incontro in quell’ampio lasso di tempo senza mai scomporsi di una virgola e non smettendo mai di mettere al servizio del primo cittadino del paese più potente del mondo il proprio garbo naturale e la vocazione alla discrezione più assoluta.

Basato sul libro The Butler. Un maggiordomo alla Casa Bianca che il giornalista di colore del Washington Post Will Haygood ha pubblicato nel 2009 sulla straordinaria vita di Eugene Allen dopo averne anticipato i fatti salienti in un reportage edito dallo stesso quotidiano il 7 novembre del 2008 (e il cui titolo, essendo uscito poco dopo la prima vittoria di Barack Obama, era significativamente A Butler Well Served by this Election), questo sontuoso affresco di storia americana vista dalla parte di un uomo di colore al servizio dei potenti porta la firma di Lee Daniels, cinquantatreenne nero di Philadelphia che nel 2009 con l’acclamato Precious (quattro nomination poi convertite in due Oscar) aveva mostrato in maniera più che chiara di avere una forte propensione alla rilettura critica di quella stessa storia e dei suoi nodi più intricati a livello socioculturale.

Nella finzione cinematografica il personaggio di Eugene Allen è diventato Cecil Gaines: assunto nel 1952 come aiuto maggiordomo mentre l’inquilino della Casa Bianca era Harry Truman, Cecil vi rimane per 34 anni, facendo a tempo non solo a servire Bush padre dopo averlo fatto con Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter e Reagan, ma anche a essere tra gli invitati d’onore che Barack Obama volle accanto a sé in occasione della sua prima inaugurazione nel 2009.

La ricostruzione – molto romanzata e spesso poco aderente ai reali accadimenti della vita di Eugene Allen – di questa straordinaria carriera viaggia in parallelo con quella dell’esistenza privata di Gaines/Allen: sposatosi nei primi anni ’50 con Gloria, da lei ha due figli (Lewis e Charlie) che di fatto diventano l’elemento dirompente di una vita trascorsa all’interno delle rassicuranti mura del palazzo più influente della Terra perché lo costringono a confrontarsi in prima persona con le rivendicazioni per i diritti civili ma anche con le esiziali conseguenze dell’avventurismo militare degli USA in estremo oriente.

Se infatti il figlio minore Charlie muore in Vietnam come migliaia di giovani americani sacrificati sull’altare di un conflitto assurdo che Cecil/Eugene vede lievitare come spettatore silenzioso nelle stanze dei bottoni in cui serve il tè a quei potenti che la vogliono combattere a tutti i costi non ostante l’ondata di contestazioni da essa causate, il maggiore si converte per lui un’autentica spina nel fianco.

Acuto e intelligente quanto basta per studiare all’università non ostante la modesta estrazione sociale di appartenenza arrivando fino ad abbracciare un’importante carriera politica, Lewis non tarda a lasciarsi affascinare dalle lotte per la concessione dei diritti civili che a partire dai primi anni ’60 iniziano a caratterizzare la vita del paese passando dal pacifismo attivo di un Martin Luther King per arrivare alle dimostrazioni violente delle Black Panthers e di Malcom X.

Apolitico per tutta la sua vita (scelta questa in parte motivata da ragioni professionali oltre che personali), Gaines/Allen assiste impotente e passivo al progressivo aumento di impegno politico del figlio Lewis, finendo però col rinunciare ad avere con lui qualsiasi tipo di rapporto per anni quando il ragazzo inizia a entrare e uscire dagli istituti di pena di vari stati del paese, accusato a vario titoli di essere parte delle frange più violente di quanti lottavano per la parità di diritti e per il riconoscimento di una dignità sociale per quell’enorme porzione di cittadini esclusa per secoli da ogni forma di partecipazione attiva alla vita politica della più avanzata democrazia del mondo.

Un rapporto quello col figlio maggiore che si ricompone soltanto nel finale (anche questo per nulla in linea con quanto accaduto al vero maggiordomo Eugen Allen), quando il padre si avvede del proprio errore di valutazione, si dimette dal posto occupato per 34 anni e si dedica – non ostante l’età ormai più che veneranda – a fare dell’attivismo in prima persona a favore di Obama e dell’illusione che quanto fino ad allora non poteva nemmeno essere sognato (ovvero un nero Presidente degli USA) potesse diventare realtà.

Se il suo personaggio impiega mezzo secolo a prendere coscienza dell’impossibilità di resistere apatici alle sperequazioni in atto senza passare all’azione, il punto di vista di Daniels è più che chiaro nella scelta di campo che fa fin dall’inizio della pellicola con la scena feroce dell’uccisione a sangue freddo del padre del protagonista in una piantagione della Georgia: la vita di Cecil Gaines/Eugen Allen è di fatto un gigantesco pretesto per raccontare una porzione imbarazzante di storia americana, mettendo il dito nella piaga su secoli di vergogna e sulla resistenza dimostrata da molti Presidenti americani a concedere quella parità di diritti che sarebbe parsa più che ovvia a qualsiasi osservatore neutrale.

Proprio per questo il regista di Precious sfrutta la vita del suo maggiordomo per piegarla alle ragioni di un costantemente votato all’impegno civile (non va dimenticato che Daniels ha iniziato la carriera come produttore firmando un successo con tanto di Oscar quale Monster’s Ball nel 2002) e di denuncia della disuguaglianza e della sperequazione sociale che ha dominato per due secoli il suo paese, senza per altro essere del tutto risolta anche in epoche più recenti. E nel fare questo si prende non poche libertà che hanno immediatamente scatenato critiche molto accese da parte di quanti (su tutti il figlio di Ronald Reagan che ha contestato il ritratto che viene offerto del padre nel film) hanno considerato inaccettabile la ricostruzione di parte degli eventi di cui Gaines/Allen sarebbe stato testimone silenzioso e sussiegoso nella Stanza Ovale.

In effetti le libertà che Daniels e lo sceneggiatore Danny Strong si sono prese non sono certo poche e prive di peso drammatico nell’esposizione degli eventi. A partire dalla sequenza brutale della morte del padre di Gaines all’inizio del film (ucciso a sangue freddo davanti a Cecil stesso dal latifondista bianco che gli aveva appena violentato la moglie), passando per la sostituzione della Georgia (luogo in cui Allen crebbe e lavorò come schiavo nelle piantagioni) con la Virginia, per arrivare fino all’invenzione di sana pianta di un figlio extra (il Charlie morto in Vietnam è infatti un puro espediente per rendere la piaga del conflitto in Estremo Oriente ancora più dolorosa e vissuta sulla propria pelle dal protagonista), nonché alla creazione dell’attivismo radicale nel figlio Lewis che, in realtà, non fu mai in prima linea nella lotta per l’affermazione dell’uguaglianza di diritti tra neri e bianchi.

Se si prescinde da queste innocenti deviazioni dalla lettera della vita del vero maggiordomo in servizio alla Casa Bianca per 34 anni, The Butler resta un affresco potente e altamente suggestivo di uno dei più drammatici periodi dell’intera storia americana. Costato solo 30 milioni di dollari a fronte dei 160 che ha già incassato prima dell’uscita in Europa, il film di Daniels si candida a pieno diritto a fare la parte del leone la notte degli Oscar.

E questo non solo per il fatto che il ruolo del protagonista è affidato a uno straordinario Forrest Whitaker che rischia di bissare la statuetta già vinta per L’ultimo re di Scozia, ma anche per la parata di star hollywoodiane e grossi nomi del mondo della canzone chiamati a raccolta (da Robin Williams, a John Cusack, da Liv Schreiber ad Alan Rickman nei panni rispettivamente dei Presidenti Eisenhower, Nixon, Johnson e Reagan, per arrivare a Mariah Carey e Lenny Kravitz in quelli della madre di Cecil e di uno dei compagni di lavoro del protagonista alla Casa Bianca) per aggiungere ulteriore lustro a una pellicola il cui tema avrebbe già da solo rappresentato un problema per i giurati, visto che li metterà impietosamente di fronte alla cattiva coscienza di un intero paese chiamato a confrontarsi con le pagine più vergognose della sua storia recente.

Trama

Figlio di schiavi e lui stesso lavoratore bambino in una piantagione della Virginia, verso la fine degli anni ’50 Cecil Gaines diventa maggiordomo alla Casa Bianca dove lavora per 34 anni servendo ben otto diversi presidenti. Durante questo lungo magistero professionale assiste a cruciali eventi storici destinati a cambiare l’assetto sociale degli Stati Uniti.


di Redazione
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