1917: i piani sequenza della Storia

Partendo da André Bazin Giuseppe Ghigi arriva a 1917, il nuovo film di Sam Mendes, riflettendo sulla messa in scena del conflitto bellico, sull'utilizzo dello spazio e del tempo, e sul concetto di montaggio.

André Bazin sosteneva che il piano sequenza è il superamento della frattura spazio-temporale imposta dal montaggio classico. Sarebbe, quindi, una tipologia di piano di ripresa “realista” mimetico, ovvero che vorrebbe ridurre la frattura percettiva dello spettatore e riportare la visione alla continuità spazio-temporale del mondo reale. Insomma, dare la sensazione di trovarsi nella scena. Accettando l’analisi di Bazin, senza opporvi considerazioni teoriche, proviamo ad applicarla a 1917 di Sam Mendes che, come si sa, sarebbe un intero film in piano sequenza. Sarebbe, perché in realtà le riprese singole durano tra i due e gli otto minuti e poi sono “incollate” in montaggio e in post-produzione. Sarebbe anche dal punto di vista del set perché, ad esempio, la scena dell’attraversamento del ponte di Écoust-Saint-Mein è stata girata in tre località diverse, molto distanti tra loro, il viaggio in camion a Wiltshire nell’Inghilterra sud-occidentale, l’attraversamento del canale in Scozia, i campi aperti nel Salisbury Plain, una base Raf in disuso nell’Hertfordshire, una cava nell’Oxfordshire, un canale nel centro di Glasgow, un centro di rafting sul fiume Tees, e tutta la sequenza della città in un gigantesco set agli Shepperton Studios. Dunque, nessuna continuità spaziale, ovviamente. Dovrebbe o vorrebbe essere in unità temporale come del resto impone l’unico piano sequenza, ma al sessantaseiesimo minuto la chiusura “al nero”, dopo che Schofield cade dalla scala perdendo l’equilibrio per il contraccolpo dello sparo che uccide il cecchino e rimanendo stordito, permette di far passare la notte e quindi di far slittare il tempo al giorno dopo rompendo di fatto, ma non in percezione visiva, l’unità temporale. «Volevo che il pubblico percorresse ogni passo del viaggio insieme a loro, che sentisse ogni loro respiro – dichiara Sam Mendes – La narrativa è stata costruita in modo che ogni secondo del film si collochi all’interno di una narrazione continuativa e ininterrotta”. Dunque, la volontà del regista è di ridare “la realtà”, la realtà di un evento immaginario e immaginato e di un evento che sarebbe accaduto cento e tre anni fa.

Immaginare il passato, quando si ha che a che fare con la Storia, ha grosso modo due possibilità: essere incuranti della filologia del set, oppure cercare di ridare l’ambiente storico con esattezza. Tanto più si rappresenta un tempo storico lontano dal nostro e tanto più difficile è essere filologici e si finisce magari per mettere in scena un immaginario coevo della Storia. Come scriveva Lucien Febvre «ogni età si fabbrica mentalmente la sua rappresentazione del passato storico» e lo fa, se è uno storico o semplicemente un regista, «con i materiali di cui dispone» e questa, «è la legge dell’umano sapere». Ovviamente, mettere in scena il Cinquecento non è mettere in scena il Novecento. Da una parte avremmo a disposizione poche testimonianze visive (i quadri, le stampe, ecc,), dall’altra una enorme mole di materiali. La Prima guerra mondiale è stato un evento documentato da una superlativa quantità di fotografie, film, documentari e testimonianze scritte, orali, piante e piani di battaglia; insomma, qui è davvero più facile essere filologicamente vicini al tempo narrato. È pur vero che le testimonianze visive del conflitto misero in atto lo “spettacolo” della guerra e la versione condivisa della carneficina, come sostiene Pierre Sorlin, ma è anche vero che lo “spettacolo” diventa la memoria dell’evento da cui è difficile prescindere.

La ricerca filologica, fedele e realistica inizia cinematograficamente subito a pochi anni dalla fine del conflitto. Tra i primi a realizzare qualcosa che vuole diventare la “memoria” visiva stessa della guerra è Les Croix de bois di Raymond Bernard del 1931, che si propone di realizzare la più fedele ricostruzione possibile dello scontro e dell’universo bellico. Il regista decide di girare le scene della battaglia nei luoghi del conflitto (a Cornillet, in Champagne) con attori e comparse tutti ex combattenti, rimette in funzione le trincee di Verdun, usa solo armi autentiche e falsifica le sequenze con finti effetti flou e movimenti di macchina che danno l’impressione della ripresa sul posto e durante l’evento. Nelle sue memorie, il regista ricorda: «Le trincee non erano ancora state ricoperte. Dei “recuperanti” dell’esercito ci precedevano per sondare il terreno prima di girare. Spesso trovavano bombe inesplose e noi stessi abbiamo disseppellito cadaveri mutilati che furono identificati». È un modello di rappresentazione “realistica” che verrà copiato, ripreso, emulato per anni perché ormai entrato nell’immaginario come esatta riproduzione filmica della guerra di trincea sul fronte occidentale. Lo riprenderà Stanley Kubrick per Orizzonti di gloria per la sequenza dell’“attacco al Formicaio”.

L’attacco al Formicaio di Orizzonti di gloria, la più studiata e celebrata delle sequenze di battaglia, è costruito in due segmenti. Nel primo siamo dentro la trincea e un lungo carrello accompagna il colonnello Dax (Kirk Douglas) nell’ultimo e nervoso controllo delle truppe. Il carrello inizia muovendosi posizionato sul fondo della trincea dandoci lo sguardo in soggettiva che non è solo di Dax, ma diventa anche il nostro: Kubrick ci costringe a passare tra le due file di soldati che attendono l’ordine d’attacco. Poi, la macchina da presa precede il colonnello per un tratto di trincea mostrandolo di faccia e ritorna successivamente in soggettiva; l’alternanza dei punti di vista è ripetuta più volte finché Dax giunge a una scaletta su cui e posizionato un binocolo. Per realizzare la sequenza, Kubrick pretese che le trincee fossero larghe due metri in modo da permettere alla macchina da presa montata sul carrello di muoversi. La decisione mosse le critiche del consulente militare del film, il barone Otto von Waldenfelds, che protestò vivacemente con il regista: le trincee francesi erano strette e allargandole si sarebbe commesso un errore storico. Per un perfezionista come Kubrick era un’accusa pesante, ma l’idea del lungo carrello era troppo forte e convincente per poterla abbandonare a causa di un problema filologico. Tuttavia, cercò una soluzione: fece porre sul fondo della trincea delle lunghe assi di legno, delle passerelle, che rispettavano la realtà storica invece dei binari necessari per muovere il carrello.

Sam Mendes ha indubbiamente questi modelli nel suo outillage mental, questo materiale visivo (che lo voglia o meno) per la sequenza di attraversamento delle trincee e anche la ricostruzione fedele dell’ambiente di Una lunga domenica di passioni di Jean-Pierre Jeunet del 2004. La nuova tecnologia digitale ha però permesso al regista e al direttore della fotografia Roger Deakins di ovviare alle limitazioni imposte da una tecnologia molto più ingombrante. E non solo in ripresa adoperando la nuova Alexa mini Lf della Arri e il Trinity camera stabilizer, ma anche in montaggio e post-produzione per unire le varie riprese in una sola in continuità di piano. Ha in questo aumentato il grado di realismo, la veridicità del racconto della Storia, ci ha davvero riportati visivamente nelle trincee del fronte occidentale? Vediamo.
Dal punto di vista del quadro squisitamente storico siamo vicini. Écoust-Saint-Mein, centro del racconto (ricostruito ovviamente), è a sedici chilometri da Arras e fu uno dei centri dell’offensiva britannica che si svolse tra il 9 marzo e il 16 aprile 1917 (Mendes rispetta la stagione, i ciliegi in fiore ad esempio). La ritirata dei tedeschi sulla linea Hindenburg avvenne e la presa della città da parte degli inglesi (2 aprile 1917) fu abbastanza agile anche se venne poi ripresa dai tedeschi il 21 marzo del 1918 e infine riconquistata dagli inglesi nell’agosto del 1918. «Il 1° battaglione era accampato nel villaggio Écoust-Saint-Mein – scrive Ernst Jünger nel suo “Tempeste d’acciaio” – che avremmo ripreso d’assalto, due anni più tardi, ridotto a un cumulo di rovine». Un cumulo di rovine, quindi. Alcune foto storiche di parte britannica lo dimostrano.

È accertato che la zona di Écoust-Saint-Mein (non la città) non avesse subito in quei mesi particolari distruzioni dovute a bombardamenti, ma nella ritirata strategica i tedeschi avevano fatto terra bruciata di alberi e bestie d’allevamento (nel film è il momento della condanna della brutalità del nemico: dapprima l’ufficiale in macchina aspettando che venga spostato un tronco d’albero che ingombra la strada dice: «Almeno avrebbero potuto ritirarsi con un po’ di grazia. Bastardi!», e poi i tommies nel camion che li trasporta verso la cittadina vedono la strage di mucche compiuta dal nemico: «Guardate che cazzata. Tre anni per combattere per questo. Avremmo dovuto lasciarglielo prendere. Voglio dire, chi è che ci mitraglia, le mucche? Gli Unni e le pallottole speciali. Bastardi! Astuto, sanno che se non sparano ad una mucca, ce la mangiamo noi. Ancora più bastardi»).
«Devo raggiungere il 2° Devon appena fuori Écoust», dice Schofield ai commilitoni: questo è la sua missione. In effetti vari battaglioni del Devonshire Regiment occupavano e combattevano nella zona proprio di fronte alla linea Hindenburg. Infine, la qualità filologica delle trincee che è tra le più precise viste nei film sul primo conflitto mondiale: quelle inglesi sono più scadenti e meno organizzate e protette, quelle tedesche costruite per restare a lungo con ripari complessi e più sicuri e molto cemento armato. E quando Schofield e Blake raggiungono la linea nemica ed entrano in un alloggiamento dei tedeschi commentano: «Gesù… guarda qua… è enorme… hanno fatto tutto loro». La distruzione della no man’s land, con le enormi buche piene di morti, i topi è molto vicina a quella che si presentava nei campi di battaglia di quella zona piatta e fangosa (vedi un esempio scattato nella zona di Zonnebeke).

L’unica distanza evidente dalla realtà storica è l’incontro, tra le rovine della cittadina, di Schofield con una donna e un neonato orfano che trovano riparo in uno scantinato. Gli abitanti di Écoust-Saint-Mein vennero fatti tutti evacuare dai tedeschi e portati nelle retrovie ben prima del 1917, quindi nessun civile era rimasto. Ma è un momento narrativo necessario (anche se manca una buona dose di sottrazione) per mostrare che la guerra non colpiva solo i militari ma anche la popolazione civile.
Dunque, il rispetto del quadro storico e dell’ambiente bellico è molto accurato; ma è sufficiente il lungo one-shot a ridarci il realismo? Prima di affrontare la questione, ricordiamo che non è, come alcuni hanno scritto, il più lungo one-shot della storia del cinema. Ad esempio il piano sequenza di Victoria di Sebastian Shipper dura 140’, Fish & Cats di Shahram Mokri 134’ (ed erano effettivamente one-shot, ovvero senza trucchi di montaggio in post-produzione digitale come lo sono invece i 96’ di Arca russa di Alexsandr Sokurov). Tornando a noi, il piano sequenza di 1917 è davvero necessario per ridarci la continuità spazio-temporale della realtà o è invece solo il trionfo dell’estetica e della tecnica cinematografica sull’etica del racconto? Se prendiamo i piani sequenza di Il figlio di Saul di László Nemes e li confrontiamo con quello di 1917 non c’è dubbio: si cade in un tonfo, in una continua puzza di artificiale nonostante l’accuratezza filologica. Nel primo caso l’estetica è al servizio dell’etica narrativa, nel secondo la briglia sciolta di Mendes porta il film verso le scansioni di un videogioco (il pericolo c’è, eccome). Il pericolo del film di Mendes di anteporre l’estetica del mezzo (tecnico) sulla narrazione è lo stesso corso da Michail Kalatozov in Soy Cuba del 1964: una sequela di incredibili piani sequenza fotografati da Sergej Uruševskij con una Caméflex Eclair e un obbiettivo da 9,8 mm quasi in fisheye (era la cinepresa amata dai registi della Nouvelle Vague). Sono riprese audaci, al limite del possibile per il tempo, straordinarie in sé, ma altrettanto leziose, ingombranti e formaliste che mettono in secondo piano la Storia di Cuba anni Cinquanta che avrebbe dovuto essere l’oggetto del racconto. Perché il piano-sequenza di per sé non basta a costruire un senso e una narrazione di senso: può anche solo mostrare i muscoli della tecnologia cinematografica, la montagna di denaro speso, la bravura del regista e soprattutto del direttore della fotografia (non a caso tutti hanno parlato più di Deakins che di Mendes). Il piano-sequenza dovrebbe nascondere la macchina e non esibirla se vuole mimare il reale e in 1917 la grande macchina del set si sente già nella prima sequenza.

A Mendes i piani sequenza piacciono: ricordiamo l’inizio del suo Spectre con l’azione che si muove nelle strade di Città del Messico per finire con la distruzione del palazzo dove si trova Marco Sciarra (dura 5 minuti senza interruzioni). Ma qui, in 1917, non siamo in uno 007: si vorrebbe raccontare la Storia seppure in un episodio minimalista. Ecco, forse è questo il liminare problema del film: da un lato la giusta assenza del senso di eroismo e di epica, la quasi insignificanza degli interpreti (Chapman e MacKay) che è stata la caratteristica dei soldati della prima “guerra totale” del Novecento, coraggiosi malgrado loro, e il senso di inutilità di quel conflitto che fu il suicidio dell’Europa. Dall’altro lato, il trionfo del come si racconta sul cosa si narra e il come dovrebbe essere al servizio del cosa e non viceversa (soprattutto, non deve imporsi, essere “visibile”). E qui, Bazin non ce ne voglia, si mostra che non basta la grammatica del cinema, ci vuole la storia con la esse minuscola a dare un senso alla grammatica e a giustificarne le scelte.


di Giuseppe Ghigi
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