Il sodalizio, il montaggio, l’ostetricia: conversazione con Walter Fasano

Anton Giulio Martino intervista il montatore e regista Walter Fasano.

Da un punto di vista strutturale tu sei il vero anello di congiunzione tra Dario Argento e Luca Guadagnino. Si ragiona spesso su Argento, confrontandolo, ad esempio nel caso dei due Suspiria, con Guadagnino. Ma non si considera l’evoluzione avvenuta nell’ultimo periodo argentiano. E che tu hai seguito dall’interno.

Lavorare con Dario per me è stata una grande gioia perché conoscevo Luca già prima di Dario. Quindi per noi frequentare il cinema di Dario è stato estremamente formativo. Ha generato il nostro gusto. Ci siamo anche incontrati. Ricordo che nel 1995 io e Luca andammo alla Mostra di Pesaro che già frequentavamo, proprio per conoscere Dario. Perché volevamo fare un cd-rom su di lui. Quando poi sono stato chiamato da lui per montare Il Cartaio per me è stato un incredibile avvenimento di sorpresa e gioia, condivisa anche con Luca. Era il 2003. Chiaramente ho incontrato questi due registi in due diverse fasi della loro carriera. Dario era un regista ormai adulto, il cui stile conoscevo perché avevo amato i suoi film, quindi non ho avuto grande difficoltà a capire come trattare i suoi materiali. Il Cartaio è stato criticato come un giallo che non funzionava ma in realtà Dario girandolo e montandolo mi diceva: “Io non voglio fare un giallo tradizionale. Profondo rosso l’ho già fatto. Quindi mi interessa fare un film in cui lo dichiaro chi è il poliziotto. Mi interessa fare un film sulla bruttura umana. È quello che mi interessa”. Probabilmente c’era anche il in lui desiderio di spostarsi più dal piano della narrazione e della forma e andare su qualcosa di più espressivamente radicale e profondo. Poi non so quanto gli spettatori legati al vecchio Argento abbiano apprezzato. Ma per me è stato un piacere far parte di un movimento di ricerca di qualcos’altro. Perché questo movimento di ricerca è estremamente importante anche per Luca. È il sale, credo, del fare cinema: la ricerca di forme nuove, sempre stimolanti per lui e per noi per primi. In questo senso Luca è un regista al centro della sua maturità espressiva. Lavoriamo assieme da più di vent’anni per cui con orgoglio sento di essere parte della generazione della sua forma e del suo linguaggio cinematografico e, con metodi diversi, ma ugualmente con una grande voglia di lavorare sempre sulle forme del cinema per approfondirle, sperimentarle e sorprendere.

Quando vidi Il Cartaio confesso che fui deluso dal cambiamento. Però ho poi capito, con il dovuto ritardo con cui spessi i critici – quando va bene – capiscono, che il cambiamento di un autore a sua volta va innanzitutto capito e studiato, non giudicato. Ad esempio Dario Argento nella sua perenne esigenza evolutiva, che quindi comincia molto prima del Cartaio, si è sempre affidato a collaboratori in grado di portare una visione aggiornata del mondo e dell’espressione artistica. Perciò, nel caso del Cartaio, lo dico in maniera un po’ troppo diretta, forse per fare personale autocritica rispetto al primo impatto con quel film, credo tu abbia influenzato, per motivi generazionali, attraverso il montaggio anche il suo stile. E lui potrebbe essersi affidato a te poiché voleva lavorare con qualcuno che montasse in maniera diversa dal passato e in confidenza con il digitale.

Devo dirti che, se esiste come montatore la possibilità di attribuirsi uno stile, io mi sento più classico che “digitale”, tra virgolette. Però capisco quello che vuoi dire e soprattutto credo che sia valido a livello energetico. Sono sicuro che Dario abbia bisogno di circondarsi di energie giovani, fresche, che corroborino la sua voglia di fare cinema. Ti parlo comunque di quattordici anni fa. Credo che questo fosse il caso, allora. Lui era molto contento del risultato del nostro lavoro e io mi sono comunque messo al suo servizio come ho fatto con qualsiasi cineasta con cui ho lavorato. Per cui, se ho dato un contributo che in qualche maniera l’ha cambiato, secondo me era già nel desiderio di Dario. A cominciare da una sequenza titoli che era completamente fuori fuoco e aveva mandato nel terrore il laboratorio di Cinecittà perché pensavano fosse un problema tecnico. Dario desiderava fare un film cattivo, freddo, veloce. Aveva chiamato Benoît Debie, direttore della fotografia di Gaspar Noé, di cui Dario aveva visto Irréversible, che era un film freddo e cattivo a livelli insopportabili. Credo che sia stata una delle principali ragioni per cui Dario mi ha chiamato. Perché pensava che io potessi contribuire. Dario voleva fare un film così, e io mi sono messo semplicemente al suo servizio.

Fai molto bene a precisarlo, poiché quando spesso si parla di montaggio si dimentica quanto in passato fosse spesso veloce. La velocità infatti è un attributo tutt’altro che assente persino nel paradigma classico.

Senza contare, citando addirittura il cinema delle origini, quello dei primi trent’anni di storia del cinema.

Infatti.

Ogni volta che perdo il mio orientamento in quello che sto facendo, ho bisogno di vivificarmi nel cinema muto. Ora non vorrei sembrare orribilmente snob, ma è quanto di più sperimentale e radicale ci sia stato proprio perché non aveva il supporto delle parole, se non di quelle scritte nelle didascalie. Per cui Abel Gance e ovviamente i cineasti russi sono sempre fonte di ispirazione perché sono di una complessità e di una stratificazione incredibile. Quindi in questo senso sono d’accordo. Il cinema delle origini, dei primi trent’anni, è stato estremamente ricco di velocità, tecnicismi, sovraimpressioni. E questo rappresenta una fonte di ispirazione totale. Perciò non è vero che il montaggio tra virgolette “veloce” sia frutto dei nostri tempi, in parte degenerati dalla necessità di un graffio pubblicitario, o da videoclip, per catturare l’attenzione. Adesso il pubblico la differenza la percepisce da un montaggio veloce tout court e ipnotico che ti vuole un po’ gabbare e portare da qualche parte solo confondendoti le idee rispetto invece a qualcosa che invece stimola la tua sensorialità. Diceva Ejzenstejn che bisogna stimolare l’stinto di “caccia” e “battaglia” nel pubblico. E le immagini non dovevano unirsi armoniosamente, ma scontrarsi. Queste sono fonti di ispirazione che per noi permangono anche nella pratica quotidiana che è anche più banale e meno aulica di quanto stiamo dicendo adesso.

L’impressione che emerge anche dal vostro Suspiria è infatti quella di uno stile di montaggio, mi permetto di dire, d’avanguardia.

Ti ringrazio.

Da un nuovo Suspiria, un remake, non ti aspetteresti mai una tale complessità. Laddove Argento è basico, lineare, archetipico, il vostro è un film problematico, stratificato. Mi fa venire in mente  L’esorcista II – L’eretico di Boorman, di cui allora non si capì quanto poco fosse un semplice sequel e che invece approfondiva L’esorcista di Friedkin, ne coglieva e sviluppava gli aspetti più complessi, restituiti da un montaggio altrettanto complesso. Anche in questo Suspiria c’è molto montaggio incrociato e parallelo. Ritengo quindi che il tuo sguardo non solo da montatore, ma da collaboratore artistico a largo spettro di Guadagnino sia molto consono alla visione, ripeto: complessa dell’attuale Suspiria.

In questo mi piace pensare che io e Luca, come dicevo prima, siamo compagni d’avventure nel senso della sfida a puntare sempre più in alto e a cercare di essere molto seri nel divertirci a cercare delle forme espressive, non so se nuove ma sicuramente significative. Quindi non semplicemente soluzioni narrative. Poi ovviamente non vai in giro con un cartello su cui lo dici.

Avete discusso del concept estetico?

Devo dirti che ormai io e Luca parliamo molto poco del lavoro che stiamo andando a fare. Io cerco di investigare su quali sono i tiranti, i vettori principali, perché lui è un uomo molto preso da mille cose, soprattutto quando è sul set, come ogni regista. Poi, chiaramente quando guardiamo i giornalieri, gli do un immediato feedback riguardo al fatto se io credo che quello che lui sta facendo vada nella direzione individuata. In genere termina lì. Ad esempio in Chiamami col tuo nome alla fine della prima settimana di riprese di un film girato quasi tutto in sequenza, con dei riferimenti che erano il cinema francese degli anni Ottanta, Rohmer, il tardo Rivette, ma anche se vuoi Miller, Pialat sicuramente, io gli ho detto: “Non dobbiamo dirci più niente. C’è tutto. La strada è quella”. Con Suspiria è successo lo stesso, ho capito subito la direzione, i riferimenti. Ho capito subito che eravamo dal lato di Fassbinder, del melodramma nero che non invece sull’opera rock scintillante di Dario. Questo lo sapevo da tempo perché se ne era parlato. E da lì in poi è stata una cavalcata lunga due anni perché tanto è durata la post-produzione del film. Questo mi ha permesso di lavorare, devo dirti in tutta sincerità, un po’ maniacalmente alla forma del film. La prima stesura durava tre ore e cinquanta minuti.

Potrebbe durare all’infinito. Come Berlin Alexanderplatz, visto che hai ricordato Fassbinder.

A me tra l’altro la versione lunga piaceva molto.

Magari un giorno la vedremo in un’edizione speciale.

A Luca non piace rimettere mano ai montati, però io ce l’ho. Ad ogni modo torno a dire che Suspiria è frutto di un progetto comune molto meditato, senza che però stiamo a perderci in lunghe discussioni, con la pipa davanti al caminetto. Ma a nostro modo lo facciamo, e il nostro dialogo assume forme sempre diverse. Ad esempio ci sono delle sequenze che io sento molto mie, che poi materialmente mi metto lì a montarle da solo, e altre che facciamo insieme. Comunque questo film sento che è intimamente Luca nella concezione.

Cosa intendi quanto parli di sequenze che senti tue?

Intendo chiaramente quelle scene che sono tecnicamente del montatore, come quella di danza tra Susie e Olga. Inevitabilmente, perché tra l’altro non era stata tradotta in storyboard. È una scena di cui Luca mi ha fornito i materiali e mi ha detto: “Adesso fai”. Devo dirti che ci ho messo cinque settimane per montare quei due minuti e mezzo. Oso pensare che resterà nel mio lavoro come la trasformazione di Un lupo mannaro americano a Londra.

Oppure la scena della doccia di Psyco.

Magari. Non che Landis non sia stato lì ugualmente grande, ma con la doccia di Psyco ci spostiamo in territori metafisici.

Quali altre scene di Suspiria rientrano in questa categoria?

C’è la scena del balletto di Volk. O le scene oniriche, in cui il montaggio è particolarmente evidente. Anche scene più sommesse dal punto di vista del montaggio. Ad esempio tutta la scena di montaggio parallelo tra le streghe in cucina di notte e Sara che si addormenta e poi si sveglia perché sente dei rumori.

Come riferimenti pensavo anche a Jodorowsky e Rob Zombie.

Soprattutto Jodorowky è quello che farebbe piacere anche a Luca.

Parliamo del sonoro.

Il lavoro sul suono è stato molto lungo. Il lavoro con Thom Yorke è stato eccezionalmente divertente, complesso e proficuo. Anche perché Thom l’ultima cosa che avrebbe voluto fare è una colonna sonora canonica, horror. Voleva solo sentirsi liberare, perché era la sua prima esperienza. E gli è stato permesso.

Hai parlato principalmente come montatore. Ma quando un film di Guadagnino contribuisci a scriverlo, come in Io sono l’amore e Chiamami col tuo nome, non puoi non avere già in mente il montaggio. Ne diventi un po’ l’autore: un “mont-autore”.

In questo caso diventa una collaborazione ancora più profonda. Lo dico con grandissima sincerità: è un territorio molto bello quello della nostra collaborazione, di estrema libertà e di completo riconoscimento dell’identità espressiva dell’altro, soprattutto mia nei confronti di Luca. E in questo senso mi piace molto sentirmi parte, diciamo in termini proprio di “ostetricia”, di capacità di levatrice, di riuscire a tirar fuori dai materiali che lui genera qualcosa che lui ritiene… Alcune volte io riesco, credo, a essere nel montaggio più Guadagnino di quanto Guadagnino riuscirebbe ad essere. Questo per esempio è successo nel nostro lavoro che abbiamo co-firmato, Bertolucci on Bertolucci, che ho fatto in buona parte da solo al montaggio, ma avevo sempre in testa, come quando monto i film di Luca, ciò che lui potrebbe amare. E quando trovo la soluzione che secondo me può sorprenderlo, è un momento di grande divertimento. Perché so di essere stato più Guadagnino di lui.


di Anton Giulio Mancino
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