Luchino Visconti e la critica

Di Visconti e dell’atteggiamento della critica nei suoi confronti si è parlato, tra l’altro, in occasione della presentazione del libro Morte a Venezia Thomas Mann/Luchino Visconti: un  confronto, edito da Rubbettino e curato da Francesco Bono, Luigi Cimmino, Giorgio Pangaro.

L’incontro, condotto da Vito Zagarrio, si è svolto il 14 maggio presso la libreria “Altroquando” di Roma e ha visto la partecipazione del curatore Francesco Bono, del critico Gianni Sarro e dello studioso di letteratura angloamericana Alessandro Clericuzio. Prima di loro, Christian Uva, direttore della collana “Corpo a corpo”, dedicata ai classici del cinema e della letteratura, ha spiegato come il volume si avvalga di contributi di esperti provenienti da diversi ambiti disciplinari ( germanisti e filosofi, storici del cinema e musicologi) secondo un approccio e una linea di ricerca che caratterizzano il progetto editoriale.

Zagarrio ha sottolineato come Morte a Venezia, il film che Visconti ha tratto dal testo manniano, riprenda in maniera quasi fedelissima la lezione dell’originale ed è proprio in quel “quasi” lo scarto su cui hanno lavorato gli autori. Ha aggiunto che sono tante le domande che il libro pone, alcune classiche, altre meno, e si è soffermato, in particolare, sul saggio di Bono e Sarro sul non sempre facile rapporto tra Visconti e la critica. Si tratta – ha detto Zagarrio – di un saggio di metacritica, di metastoria perché ci fa comprendere come era e come operava la critica in quegli anni. Ha precisato che, se, da un lato, Morte a Venezia riconcilia la maggior parte dei critici con  Visconti, dall’altro, c’è anche chi, come Guido Aristarco o Bruno Torri, rimprovera al regista la mancanza di attenzione al presente. Concludendo il suo intervento, Zagarrio ha affermato di non essere d’accordo con quello che ha definito l’approccio “della vetero-sinistra ovvero degli affezionati al Visconti della lotta di classe”.

Sarro ha replicato che, se è vero che la critica di sinistra ha avuto difficoltà a comprendere il passaggio di Visconti da La terra trema a Morte a Venezia, è altrettanto vero che Miccichè scriverà che non bisogna restare ancorati al Visconti neorealista o a quello degli anni ’60. E’ stato, poi, il turno di Bono che ha esordito raccontando di aver lavorato per questa collana, insieme a Sarro, anche ad un altro libro dedicato ad un maestro del cinema spesso dimenticato, Bresson, e al suo film Così bella così dolce. Alterniamo volentieri – ha commentato – cose dimenticate e film notissimi. Dopodiché si è chiesto: come dobbiamo considerare Morte a Venezia? La risposta non è scontata: tutti conosciamo questo film, la maggior parte della critica lo giudica un capolavoro ma, a guardar bene, si scopre che i grandi volumi su Visconti privilegiano sempre, o quasi, altri film, a conferma che si continua a vedere Visconti in un certo modo e si fa fatica a “maneggiare” un Visconti “altro”.

L’ultima parola è andata a Zagarrio che ha definito Senso un film, per certi versi, “kitsch”, domandandosi come potesse piacere  tanto ad Aristarco. Giova, forse, a questo punto, ricordare  la posizione critica  del “più viscontiano dei critici”, per usare l’espressione adottata dallo stesso regista per designare il direttore di Cinema Nuovo. In un saggio su esperienza culturale ed esperienza originale in Visconti, Aristarco azzarda un parallelo tra il cineasta e Mann: Visconti si avvicina a Mann per origini aristocratiche, formazione, istinti, orizzonti di valori. Entrambi sono “borghesi” nell’accezione marxiana cioè entrambi hanno coscienza di sé e pongono la propria attività e i propri personaggi ad un bivio.

Ossessione rappresenta, nel contesto della cultura cinematografica di allora, una Montagna incantata cioè l’inizio della lotta tra progresso e reazione; La terra trema, anche per il ponte che cerca di gettare dal mondo dell’umanità interiore al mondo sociale, si avvicina ai romanzi di Giuseppe; Senso, come i Buddenbrook, è un epos della decadenza; Rocco e i suoi fratelli ha già nel titolo un chiaro riferimento a Mann. Dopo Rocco, e in concomitanza con la crisi degli anni Sessanta, Visconti passa dalla rivoluzione alla delusione, al pessimismo e all’intimismo: con Il Gattopardo e, sia pure in misura minore con Vaghe stelle dell’orsa, il regista pare ripetere la famosa frase di Verlaine: “Io sono l’impero della decadenza”. Non casuale appare, dunque, la scelta di fare un film dal romanzo breve di Mann: nel passato e nel presente di Aschenbach , Visconti vede la sua persona, qual era un tempo e quale è diventato, la sua sconfitta: la “lotta snervante” di ieri, la  “volontà tenace” che ha lasciato il posto ad un “senso crescente di stanchezza”. L’ultimo capitolo dell’autobiografia personale ed artistica di Visconti è

L’innocente: con questo film, egli approda a dei personaggi che non sono più dei vinti-vincitori ma dei vinti tout-court, come appunto il dannunziano Tullio Hermil. Individuare, come fa Aristarco, in Visconti un caso paradigmatico dell’involuzione di molti intellettuali che, rispetto ad una partenza anticonformistica, hanno, progressivamente, dimostrato stanchezza o impotenza nella lotta tra progresso e reazione non significa disconoscere  la grandezza di un artista e della sua opera. Significa, invece, attribuire alla critica  un intento creativo e politico, oggi inesistente.


di Mariella Cruciani
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