Le storie dei migranti nei racconti del 57. Festival dei Popoli di Firenze

Nell’edizione conclusa del Festival dei Popoli di Firenze si trovavano numerosi racconti di quelli che Erri De Luca ha poeticamente definito gli “acrobati di oggi”.

Between Fences

NeverlandNo Man Land’sNo More Land. Il “sicuro sole del Nord” (per dirla con Irene Dionisio), quella fragile utopia dei migranti in cerca dell’ “isola-Europa che non c’è”, è stato oscurato dai nuovi muri o dalle onde spaventose del mare. Masse e gruppi compatti di uomini, donne  e (sempre di più) minori soli fuggono ormai da lungo tempo – come alcuni di essi hanno detto – da una morte certa (per fame, bombe, persecuzioni di ogni tipo) verso una “morte incerta”, per andare incontro anche a una sola possibilità di salvezza e,  con essa,  di un possibile riscatto.

Nell’edizione appena conclusa del Festival dei Popoli di Firenze si trovavano, sparsi tra i concorsi e la sezione dedicata “Looking for Neverland” numerosi racconti di quelli che Erri De Luca ha poeticamente definito gli “acrobati di oggi”. Acrobati a volte in senso letterale, come Le Sauters (di Moritz Siebert, Estephan Wagner, Abou Bakar Sidibè, uno di questi,  “Looking for Neverland”),  coraggiosi scalatori del muro altissimo di Melilla  che nell’arrampicata sul confine tra Marocco e Spagna portano sulle spalle anche i messaggi di quelli partiti ma mai arrivati, come ci avevano già raccontato Hélène Crouzillat et Laetitia Tura ne Les Messagers (2014).

Storie vicine, di casa nostra

Alcune di queste storie ci riguardano da molto vicino, anche se poi si sa che a far notizia sui nostri media sono più spesso i piccoli gruppi xenofobi che sventolano le loro paure e insicurezze (a volte comprensibili, sia chiaro, più raramente giustificabili). Pensiamo a No Borders (“Looking for Neverland”) di Haider Rashid (giovane regista italo-iracheno di seconda generazione,  autore di Sta per piovere, 2013, che ha vinto con questo lavoro il premio MigrArti a Venezia.73).  Girato con lo sguardo lungo e le lenti panoramiche della “virtual reality” e con la complicità di scrittura e presenza scenica di Elio Germano e Omar Rashid, il film ci ricorda quanto da ormai due anni avviene nella nostra periferica frontiera di Ventimiglia, dove i migranti ormai dispersi vengono travolti sui binari o sulle autostrade ma non meritano più nemmeno un rigo in cronaca; o che ci spiega come al Centro Baobab di via Cupa a Roma, lo Stato, in tutte le sue articolazioni, nazionali e locali, sembra aver chiuso i battenti e lasciato per strada e all’addiaccio oltre ai migranti anche i tanti ammirevoli e ostinati volontari.  Ma pensiamo anche a Hotel Splendid di Mauro Bucci (era nel concorso italiano) che dialoga con alcuni profughi sicuramente più fortunati, approdati “fuori stagione” – dopo aver superato  ostacoli di ogni tipo – in un albergo senza più clienti della riviera romagnola. Ma anche quell’approdo si rivela insicuro: li aspetta infatti la burocrazia delle leggi europee e delle commissioni prefettizie per la valutazione delle richieste di asilo. E’ in quella, spesso decisiva per il loro futuro,  sede  che – proprio loro che nel lungo e terribile viaggio tra deserti e oceani sono stati spogliati di ogni documento e risorsa economica – dovranno dimostrare “documentalmente” il loro status;  in mancanza, dovranno spiegare le ragioni e le motivazioni con le arti retoriche di una lingua che non padroneggiano (gli stessi volontari che li “formano” sanno che molto è dunque lasciato alla fortuna o a una assurda discrezionalità dei valutatori…). E’ sui migranti infatti che ricade The Burden of Proof (“Looking for Neverland”), quell’onere e fardello della prova, titolo significativo di un mediometraggio del regista tedesco (ma il cognome non lo assegna alla pura razza ariana…) Stefan Kessissoglou, che tratta proprio delle estenuanti audizioni e attività probatorie poste a carico dei richiedenti asilo.

Storie lontane. Migranti nel deserto, da Sebastian Mez ad Avi Mograbi.

Ma, oltre al denaro e ai documenti,  ai profughi e migranti viene sottratto spesso anche ogni residuo di umana dignità.  “Ciò che resta di Osman dopo sette mesi passati in un “campo di tortura” nel Sinai è un ricordo indicibile e un corpo solcato dalla violenza”. Così si legge nella scheda di Remains from the Desert, di Sebastian Mez (classe 1982), giovane filmmaker tedesco che a Firenze ha vinto il concorso internazionale cortometraggi e che si era già messo in luce tra il 2013 e il 2014 per Metamorphosen e il corto Substanz che indagavano entrambi sugli effetti delle radiazioni nucleari, in una sperduta regione degli Urali russi ridotta a pattumiera di scorie tossiche il primo,  dopo il disastro di Fukushima il secondo.

Sono parole indicibili,  e cicatrici e amputazioni insostenibili dal nostro sguardo, quelle che sentiamo nel racconto di Osman  e che leggiamo nel suo corpo: un paesaggio umano devastato che il regista alterna alle immagini possenti, in un bianco e nero lucido e straniante, di una natura magnifica, ma solitaria e inaccessibile. Quelle che vediamo con i suoi occhi sono infatti le montagne del deserto del Sinai che Osman, in una abbacinante e tormentosa trance,  avrà attraversato nel suo viaggio dall’Eritrea a Israele, mentre, sul filo dell’orizzonte, qualche fioca luce si accende nelle città degli uomini (ma adesso nemmeno quelle appaiono più rassicuranti per lui).  La sua è una storia tanto tragica quanto in fondo poco nota (si parla di oltre 10.000 eritrei uccisi per non aver potuto far pagare ai loro parenti il riscatto dopo essere stati rapiti e torturati a morte dalle bande di beduini criminali che continuano a operare indisturbati nel deserto). Eppure, a raccontarla ci avevano pensato di recente altre opere importanti da Sound of Torture (2013, visto a “Sguardi Altrove Film Festival” di Milano) della regista israeliana Keren Shayo a Voyage en Barbarie di Cécile Allegra e Delphine Deloget (2014).

Ma il lavoro di Mez è ancor più radicale, scava oltre la cronaca, nelle profondità di una malvagità e di una sofferenza che annullano appunto la nozione dell’umano che, per essere recuperata, presuppone di azzerare la Storia per far ritorno alla  natura selvaggia e incontaminata dell’Eden primordiale. Un po’ la stessa visione del regista tunisino Akher Wahed Fina nel suo lungometraggio The Last of Us (L’ultimo di noi) che ha vinto il premio per l’opera prima alla Mostra di Venezia (era nel programma della Settimana Internazionale della Critica).

Sempre più spesso i migranti “in transito” sono solo numeri o “oggetti” dimenticati, in certo senso  corpi alieni infiltrati, sia che vaghino senza requie o che rimangano intrappolati tra le recinzioni del filo spinato,  smarriti tra  “terre di nessuno” segnate da confini immaginari o ammassati nei gironi infernali dei campi profughi alle frontiere degli Stati.

A volte gli Stati inventano dal nulla questi inumani luoghi di transito, spingendo le masse degli indesiderabili verso i confini del loro territorio, in una applicazione pianificata e su larga scala del celebre modello “Nimby – Not In My Backyard”). E’ il caso di Holot, il più grande campo di rifugiati di Israele, nel deserto del Negev a sud del paese, dove all’inizio del 2016 si trovavano più di 3.300 persone, praticamente deportate, per lo più di origine eritrea e sudanese: un vero e proprio carcere a cielo aperto. A raccontare e soprattutto a “rappresentare” in una indimenticabile performance umana e artistica le storie di alcuni di loro ci ha pensato  il grande cineasta indipendente israeliano Avi Mograbi, lucido analista delle contraddizioni del suo paese, tra società civile e spinte alla militarizzazione permanente, da Avenge But One of My Two Eyes (2005) a Z32 (2008). In Between Fences (letteralmente “tra le recinzioni”, appunto) –  che, dopo il Forum della Berlinale e altri festival,  ha chiuso degnamente a Firenze e alla sua presenza la sezione “Looking for Neverland” – Mograbi  chiama il regista teatrale Chen Alon a organizzare un laboratorio che segue l’approccio e le regole del Teatro dell’Oppresso di Augusto Boal. I due coinvolgono  alcuni degli “ospiti” della struttura (cittadini africani che parlano ebreo) ai quali, cosa ancor più importante, si uniranno alcuni cittadini israeliani, in un incrocio emozionante, difficile da rendere con le parole, di prospettive e di sguardi, nella condivisione di una esperienza reale e simbolica a un tempo,  che,  sino alla danza e al canto comuni del finale, incarna  in pieno  il destino delle “identità ibride” che avvolge o per altri incombe sulla contemporaneità.

Il regista ha spiegato  come l’ispirazione per il film sia legata a un fatto di cronaca dell’autunno 2012, il caso di 21 profughi eritrei che erano entrati nel territorio  nazionale e rischiavano l’espulsione, In quell’occasione era stato richiesto un parere all’Alta Corte di Giustizia israeliana ai sensi della Convenzione ONU sui rifugiati. Solo a due donne e un bambino era stato poi concesso di restare, mentre i 18 maschi adulti erano stati rimpatriati. Insieme a questo episodio aveva agito in lui anche il ricordo della sua famiglia paterna di ebrei polacchi in fuga dal nazismo ai quali erano stato rifiutato l’ingresso in Svizzera e che erano avevano poi raggiunto, anche loro senza più alcun documento di identità, la Palestina.

Oggi come allora infatti, per tanti, troppi Stati, “la barca è piena”.

In foto: Between Fences – regia di Avi Mograbi.


di Sergio Di Giorgi
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