Alberto Fasulo: «Il cinema migliore è quando ti senti libero»

Frame tratto da Tir, un film di Alberto Fasulo (2013)

L’intervista integrale ad Alberto Fasulo di Giona A. Nazzaro sarà pubblicata sul n.73 di CineCritica (versione cartacea)

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Come hai iniziato a fare cinema?

Facendo debiti. Chiedendo soldi agli amici. Incontrando un regista e… In realtà è una domanda un po’ strana. Perché non c’è “un” momento in cui ho iniziato a fare del cinema. Si è trattato di un avvicinarsi e sicuramente la scelta di trasferirmi a Roma è stata poi la mossa concreta per prendere in mano questa decisione e questa passione.

Allora riformulo la domanda. Qual è stata la motivazione primaria? Il desiderio di fare il cinema o il ricordo del piacere di essere stato spettatore di cinema?

Sono un pessimo spettatore di cinema. Ho avuto, ovviamente degli incontri con dei film che mi hanno segnato. Ricordo ancora la sera quando a casa da piccolo ho visto da solo Fuori orario di Martin Scorsese. Un’emozione che ho ancora impressa nella memoria. Credo che la motivazione sia un po’ quella di scoprire il mondo. Non per niente il documentario mi ha affascinato e mi ha dato la convinzione di provarci. Quando all’inizio volevo frequentare una scuola di cinema e provare l’iscrizione al Centro sperimentale avevo dei dubbi in merito all’idea della finzione. Nello specifico: raccontare la realtà attraverso la finzione. Mi sembrava qualcosa che non tornasse. Quando ho scoperto il documentario di creazione, il primo lavoro è stato Bibione Bye Bye One di Alessandro Rossetto, è stato una folgorazione. E lì ho detto: questo! Questo è quello che voglio fare.

Ti trasferisci a Roma. E…?

E mi butto. Non ho mai detto di no. Per otto anni. Era chiaro per me il fatto che dovevo lavorare. Avevo fatto un’esperienza con Rossetto su Chiusura come assistente alla regia e il direttore della fotografia, Gian Enrico Bianchi, il fonico, Marco Fiumara, mi dicevano che il cinema non andava studiato ma fatto. un lavoro che s’impara facendolo. Quindi scelsi di non frequentare la scuola ma di trasferirmi a Roma e incominciare. La cosa che mi dicevo era: per sapere gestire e parlare con i vari reparti, devo conoscerli. Ho iniziato quindi a fare qualsiasi tipo di lavoro nel cinema. Produzione, fonico, assistente alla regia, aiuto, operatore. C’è stato anche un film in cui la produzione mi ha chiamato per due ruoli diversi non sapendo che ero la stessa persona.

Che film era?

Si trattava di un film prodotto da Marianna Sciveres, Sara May, la produzione era Esperia. In definitiva, stando in tanti ruoli diversi, in tanti set, mettevo a fuoco sempre qualcosa di nuovo. Ad esempio la presenza scenica, il concetto stesso di presenza scenica, l’ho imparato in un cortometraggio diretto da Stefano Coletta dove in scena c’era Mario Monicelli. Io portavo i caffè sul quel set. Non facevo altro. Ero appena arrivato a Roma. Però mi ricordo Monicelli che stava solo, seduto su una panchina: la sua presenza davanti alla camera. Quella è una delle cose che ho imparato lì. Credo che in tutti i set nei quali sono in qualche modo capitato, con gli occhi o con le orecchie, ho imparato sempre qualcosa. In ogni caso ho creato dei rapporti con le persone.

Questa esperienza come si è concretizzata durante la realizzazione del tuo primo film, che non è stato Rumore bianco?

In realtà il mio primissimo lavoro l’avevo già girato, prima di venire a Roma, ed era Cos’è che cambia. Però non l’avevo montato… l’ho fatto tre anni dopo.

Quindi arrivi a Rumore bianco con un bagaglio di esperienze piuttosto articolato…

Arrivo a Rumore bianco perché avevo una grande frustrazione. Si era andata formando in me un’ idea. Una mia idea di cinema o un’idea di come bisognava fare nel mio caso il cinema. Che era appunto un collage di tutte le mie esperienze. Quindi questa frustrazione mi porta a dire: «Basta. Voglio provare a fare un mio film». Di conseguenza ho fatto Rumore bianco, il film sul fiume Tagliamento.

Rumore bianco è un’esperienza produttiva singolare: come nasce?

Quale produttore avrebbe mai potuto farmi fare un film? Non avevo esperienza e non avevo una scuola alle spalle. Non sapevo nemmeno come scrivere un soggetto. Non avevo neanche una raccomandazione. Dicevo che volevo fare un film sul fiume dove sono nato e quindi ho capito subito che l’unica strada possibile era l’autoproduzione. L’incontro con Paolo Benzi ha creato una sinergia produttiva. Insieme abbiamo costruito produttivamente il film. Ovviamente con tutti i miei rapporti che ho in Friuli abbiamo articolato un piano finanziario incredibile che è stato una vera e propria forza perché lavorando con le istituzioni da indipendenti mi ha permesso di realizzare esattamente il film che avevo in mente. Fare un film in pellicola nel 2006, potermi permettere un anno di osservazione e di derive sul fiume è stato un grande privilegio. Un produttore romano non so se avrebbe mai capito quello che volevo fare. Non mi avrebbe mai concesso di fare una cosa come questa. E, onestamente, non so nemmeno se possedevo all’epoca la competenza linguistica, produttiva, emotiva per spiegare il motivo di voler fare un film simile, in quel modo e non in un altro.

E questa storia dei venti centesimi pro abitante dei paesi che costeggiano il fiume per contribuire al film?

Avendo fatto un film precedente, Cos’è che cambia, avevo ricevuto 5000 euro dal mio Comune per realizzarlo. Quindi l’equazione è stata: ci sono 37 comuni, in realtà poi sono diventati 40 perché tre sono non rivieraschi, se mettono 5000 euro a testa abbiamo fatto il film. Però alle prime riunioni c’erano sindaci che ci dicevano «Noi non abbiamo nemmeno i soldi per mettere la benzina nel pulmino che porta i ragazzi a scuola pensate un po’ se possiamo spendere dei soldi per un documentario sul Tagliamento». In quel momento lì per me c’è stata la prima riflessione sull’etica del fare il cinema. E ho detto: Guardate, mettete pure la benzina nel pulmino perché quello è necessario, il mio film non è necessario. Loro, però, secondo me, erano molto curiosi e probabilmente si sentivano anche un po’ galvanizzati dal mio entusiasmo. Quindi hanno deciso di tassarsi e di mettere venti centesimi per cittadino mentre alcuni Comuni hanno messo anche cento euro. Alcuni Comuni hanno messo anche tremila euro. Abbiamo raccolto così trentamila euro. Forse di meno… forse venti. Però quello è stato un segno politico. Da lì sono entrate poi le province, le regioni. La Film Commission locale ha capito che facevamo sul serio. Per loro ho anche realizzato un piccolo promo. Insomma, diciamo che ho iniziato a fare il cinema prendendomi sul serio, sul fatto di farlo e sul fatto di non dovermi fermare davanti agli ostacoli.


di Giona A. Nazzaro
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