47. Karlovy Vary Film Festival – Intervista a Todd Solondz

Todd Solondz, nato nel New Jersey 53 anni orsono, è considerato uno dei più interessanti autori indipendenti statunitensi. Pochi film da lui diretti, ma titoli importanti quali Welcome to the Dollhouse (Fuga dalla scuola media) del 1995 che lo portò alla grande notorietà, Happiness (Happiness – Felicità) e Dark Horse, che è stato l’anno scorso in competizione alla Mostra del Cinema di Venezia.
Il regista americano, presente al 47° Karlovy Vary International Film Festival come ospite fortemente voluto dal direttore artistico Karel Och, ha detto due parole per presentare Dark Horse al pubblico.
Lontano da Hollywood, il film mostra in termini forti la società dei consumi americana, e la solitudine la permea rendendola più fragile, nonostante sia circondata dalla ricchezza.

“Quanta gente, incredibile, ma sapete che verrà proiettato il mio film o avete sbagliato sala? Comunque, oramai non ha importanza, perché o avete pagato il biglietto o uno sponsor ve lo ha offerto ma il produttore ha ottenuto del denaro lo stesso, cosi può essere mi permetta di girare un altro film, forse tra dieci anni”.

Alla conferenza stampa, in verità molto informale ed un po’ pazza come del resto ci si aspettava dal regista americano, ha risposto a poche domande con voce fievole ed un tono che faceva immaginare fosse per lui più un gioco che una cosa seria oppure che fosse realmente a disagio a parlare di se stesso e del suo lavoro..

Si è dimostrato quasi sorpreso di vedere tanto pubblico: era realmente incredulo?

Sono solo contento che le persone non siano ostili verso di me e che ci sia un pubblico per i miei i film oltre la mia famiglia.

Domanda fin troppo ovvia: perché si occupa quasi soltanto del mondo ebraico nei suoi film.

Le origini non si dimenticano e, nel caso degli ebrei, fanno parte di noi stessi  per tutta la vita. Altra ragione, è noto il nostro senso dell’umorismo, normalmente non siamo violenti e pochi sono atletici: il rischio che ti picchino o che ti facciano male è più limitato.

Dark Horse, tradotto letteralmente, per noi ha poco significato. Cosa significa esattamente negli Stati Uniti?

È una diffusa forma gergale per parlare di qualcuno che il successo lo aveva ad un palmo ma che non lo raggiunge, normalmente per causa propria. Spero che in Italia non sia tradotto, perché non credo voi abbiate una parola o una forma di pari significato.

I suoi film difficilmente sono accolti in maniera univoca. Come se lo spiega?

Negli Stati Uniti  i miei film sono presi sul serio e criticati per il loro valore, all’estero c’è sempre quello strano modo di interpretare il mio lavoro, spesso mi dicono che i miei film piacciono perché raccontano di quanto sia terribile negli Stati Uniti e li renda così felice per non viverci. Per me l’importante e che il lavoro fatto non passi inosservato, accetto qualsiasi tipo di critica o giudizio, non l’indifferenza.

Un suo giudizio su Dark Horse

Sono molto contento di questo film, che è uno dei miei commedie più tristi. Se il pubblico ride va bene, altrimenti va bene lo stesso.

È stato detto che l’idea per il film non è molto originale.

In realtà, inizialmente non sapevo cosa in realtà stessi facendo, ero conscio di non avere alcun soggetto forte o controverso per cui altri miei film sono stati amati, mi sentivo stanco. Mi sono interessato della vicenda di un ragazzo semplice che incontra una ragazza di cui si innamora e ho scoperto che poteva essere letta con un tono da commedia drammatica. Storie così sono frequenti in televisione, ma viste in maniera differente.

Come considera la scrittura di un soggetto, faticosa o divertente?

È una bellissima cosa, è come andare in terapia senza andare dallo psicoanalista. Del resto, si arriva a realizzare un film proprio per superare dei propri problemi.

Abe, interpretato da Jordan Gelber, esiste secondo lei nella realtà?

Trent’anni orsono, sicuramente no, ora sono ovunque i trenta/quarantenni bamboccioni che collezionano video games, CD, DVD; sono la nuova generazioni di uomini che non accettano di diventare adulti, che si impegnano intensamente nel nulla per non doversi occupare realmente di qualcosa. Il problema è vedere quando questo divenga una vera patologia.

A cosa è dovuta la scelta di Jordan Gelber quale protagonista?

Per me era perfetto sia per l’espressività che per la sua voce. Oltretutto, è un attore non molto noto che lavora benissimo in televisione; per il pubblico è più facile identificarlo nel suo personaggio così complesso.

Un giudizio sui giovani?

Sono molto contento di non essere giovane. Vedo le angosce della nuova generazione di sfondare nella vita, e con poche possibilità di successo. Il tempo è la migliore terapia. Sono un non nostalgico. Il tempo è il dono di chi ha vissuto e ha capito i propri errori.

Lei realizza pochi film. Mancanza di ispirazione o problemi produttivi?

Ogni mio film incassa la metà del precedente. Ho fatto perdere così tanto a tante persone che è sempre più difficile trovare chi sia disposto a rischiare per me. Mi lamento, e ho il piacere di lamentarmi, perché non ci sono finanziamenti istituzionali negli Stati Uniti per il cinema; un’economia di mercato è una economia che comanda ma non aiuta a creare. Il problema non è mio, è del mercato. Il pubblico si è notevolmente ridotto e Internet ha soppiantato tutto, in parte anche la televisione. Queste difficoltà nel realizzare storie per lo schermo non le hanno solo i registi indipendenti ma chiunque lavori nel cinema.

Silenzioso come era arrivato, si alza e scompare nel nulla: per lui parlano i suoi film.


di Redazione
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