Estinzione della critica o estinzione della coscienza critica?

Cristiana Paternò, vicedirettrice di Cinecittà News e 8½, interviene nel dibattito sullo stato della critica portato avanti negli ultimi mesi su Cinecriticaweb.

Sempre più spesso tra gli addetti ai lavori si parla di estinzione della critica. Già nel 2015 il Sncci ha organizzato un convegno intitolato “A cosa serve un critico? Vita morte e miracoli di una figura professionale in evoluzione (o in estinzione)” proprio per intessere un ragionamento attorno a questa “crisi”, che è crisi di identità, crisi di metodo e crisi professionale. Crisi di identità perché gli stessi critici dubitano oggi di loro stessi e del loro ruolo nella società e nella cultura; crisi di metodo perché le categorie superficiali del “mi piace” e “non mi piace” sembrano sempre più spesso sostituire gli strumenti dell’analisi storica, grammaticale e testuale dell’oggetto film; crisi professionale perché la critica tende ad essere sempre più spesso amatoriale e non retribuita, aperta a tutti e dunque a nessuno. Alla crisi della critica – di cui la società nel suo complesso potrebbe francamente disinteressarsi – fa da contraltare la crisi della fruizione culturale nelle sue varie forme ed espressioni. Sono facce della stessa medaglia e ormai chi fa il cinema e chi ne scrive stanno dalla stessa parte della barricata in un sistema povero e assediato che è espressione di una società volutamente indebolita sul piano culturale perché così più manipolabile, suddita e controllabile.
È una crisi, quella della critica, che si snoda attraverso varie tappe, stazioni di una via crucis culturale: con la fine delle ideologie sono andati scomparendo molti dei classici punti di riferimento che erano anche legati alle prese di posizione politiche, nel bene e nel male, con il potere del Pci da una parte e l’influenza cospicua della Chiesa cattolica. La recensione è diventata sempre più espressione del gusto personale e di una cinefilia che tende a estremizzare i giudizi, idiosincrasie comprese. Resistono magari le cordate critiche ma non ci sono più le “scuole”: marxismo, psicoanalisi, strutturalismo si sfumano in un orizzonte sempre più confuso e indistinto, tipico del pensiero debole. La cosa si è ancor più radicalizzata dal 2000 in avanti con la diffusione della rete e successivamente dei social network. Parallelamente al cosiddetto ‘giornalismo dal basso’, si è diffusa una ‘critica dal basso’ e ‘like’ e ‘dislike’ sembrano farla da padroni.

Nel bel dibattito si è acceso lo scorso settembre su Cinecriticaweb, tra i tanti interventi, tutti in grado di contribuire sostanzialmente a stimolare l’auto consapevolezza della categoria e una riflessione ermeneutica più che mai indispensabile, quello di Giuseppe Ghigi mi è sembrato particolarmente interessante per la sua problematicità e perché neanche io so decidermi tra arte e scienza. Mi piacerebbe che il mio lavoro assurgesse a una certa “scientificità” e al contempo avesse un valore letterario, ma mi rendo conto che le mutazioni profonde e radicali della nostra società nel suo complesso, il predominio del marketing, la marginalità del pensiero critico e della riflessione, la rapidità e superficialità di qualsiasi azione-reazione, minano alle fondamenta questa aspirazione che ogni giorno sento di dover riaffermare con forza e una certa fatica nella pratica. Un tempo la battaglia culturale attorno a un film trovava ampio spazio sui quotidiani ed era considerata qualcosa di importante per tutti. Oggi il processo di estinzione della critica sembra andare di pari passo con l’estinzione della coscienza politica e della cittadinanza. Con i lettori e potenziali spettatori bisogna dialogare – sempre – a costo di rinunciare a qualche vezzo intellettualistico di troppo: il fossato tra il mondo della cultura e il ‘resto del mondo’ è già troppo ampio e, a volte temo, irrimediabilmente.
Personalmente considero assai poco interessante sapere se un film è piaciuto o meno a una o più persone, quello che realmente mi interessa, e che cerco di dare al lettore nel mio lavoro, è capire di cosa si tratta, come maneggiare l’oggetto film. Porre domande, educare a interpretare un prodotto culturale. Per questo è fondamentale allargare gli orizzonti culturali della critica cinematografica verso il teatro, la letteratura, la filosofia, le arti figurative, l’opera lirica, la musica.

In definitiva, se la risposta ad alcune delle domande che sto per porre è positiva – e io credo che lo sia – la critica cinematografica continuerà a svolgere un ruolo che, magari riveduto e corretto alla luce dei nuovi modi di produzione e di fruizione, Netflix compreso, può continuare a giustificare la sua stessa esistenza.
La critica ha un ruolo determinante agli inizi della carriera di un regista, quando un nuovo autore deve essere scoperto? Serve a esplicitare la sua poetica e renderlo comprensibile? Dialoga in qualche modo con l’autore stesso indicandogli percorsi e ulteriori sfide, anche in seguito nel corso della sua carriera, quando è affermato? La critica svolge una funzione nello storicizzare tendenze e fenomeni in atto, individuando elementi in comune o apparentando certi autori e movimenti che altrimenti sarebbero percepiti come isolati o casuali? La critica contribuisce a dare visibilità e significato ai festival che tra l’altro sono diventati uno dei principali canali distributivi del cinema d’autore e di ricerca? La critica, anche come materia scolastica intesa come educazione all’audiovisivo, potrebbe contribuire a formare il gusto dello spettatore, specialmente del giovane spettatore? Quindi a indirizzarne le scelte? La critica – che non dimentichiamolo si esprime non solo nella scrittura ma anche nel lavoro di scouting, selezione e organizzazione culturale – svolge o potrebbe svolgere la funzione di dare visibilità a modi diversi, non omologati, di fare cinema, come ad esempio è stato in tempi recenti per il cinema del reale, come sta accadendo per il movimento delle registe che hanno trovato maggiore spazio nella competizione dei principali festival anche grazie ai protocolli sul gender e dalla presenza di donne nei comitati di selezione?


di Cristiana Paternò
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