Venere in pelliccia

Polanski, maestro dell’inquietudine e al contempo raffinato e beffardo costruttore di brillanti paradossi, ripropone con il suo ultimo film un esempio ottimamente riuscito di “cinema da camera” avvincente quanto il precedente Carnage ma ben più cupo e claustrofobico.
Una lunga carrellata ci guida attraverso un viale alberato e poi all’interno di uno scalcinato teatro parigino, dove il regista Thomas, irritato e depresso, ha appena trascorso il pomeriggio ad esaminare attrici deludenti. Nessuna infatti gli pare adatta ad interpretare il ruolo di Vanda nella pièce tratta dal romanzo di Sacher-Masoch Venere in pelliccia che lui stesso ha adattato. All’improvviso però arriva Vanda, in ritardo e sgocciolante di pioggia: energica e impertinente, caparbia e un po’ sguaiata, l’attrice ha lo stesso nome dell’eroina che vorrebbe interpretare. Pian piano Thomas si lascia convincere a farle l’audizione, e quando lei sale sul palco resta subito folgorato dalla sua inaspettata bravura. La donna non solo conosce a memoria il copione, ma ha perfino portato con sé, in una grande borsa, tutti gli oggetti di scena. Thomas inizia così a recitare insieme a lei in quello che diventerà presto un sottile gioco di ruoli e di potere sempre più complesso, enigmatico, seducente e pericoloso.

Da sempre abilissimo a scovare il perturbante tra le pieghe dell’ordinario, Polanski si diverte stavolta a mettere in scena un intrigante gioco di specchi in cui si confondono persone e personaggi, realtà e finzione. Eccezionali gli attori Mathieu Amalric e Emmanuelle Seigner ad entrare e uscire dai loro mutevoli ruoli in un alternarsi, man mano sempre più perverso e misterioso, di vittima e carnefice, dominante e dominato. Sacher-Masoch resta sullo sfondo, riletto attraverso una lente ironica e canzonatoria, e diventa un pretesto per costruire un discorso che va oltre la lettura dicotomica della relazione amorosa, e approda in ultimo ad una riflessione sulla sorprendente ambiguità del reale e degli infiniti modi in cui esso potrebbe declinarsi.

Fin dal suo straordinario esordio con Il coltello nell’acqua, avvenuto nel 1962, Polanski aveva saputo mostrare tutto il pericoloso potenziale degli spazi angusti e isolati (nel suo primo film, una barca) nel mettere a nudo l’interiorità dei personaggi, i loro istinti più profondi e reconditi e le tensioni segrete che ne regolano i rapporti. Dinamiche simili prendono piede in Venere in pelliccia, dove però lo spazio chiuso e appartato in cui tutto avviene si carica di nuove valenze essendo appunto un teatro: il palcoscenico è si un luogo nudo e separato da tutto il resto, ma è anche, anzitutto, luogo di finzione e immaginazione, in cui le identità si moltiplicano e si sovrappongono. Perfetto, dunque, per interrogarsi sui limiti incerti che separano la verità dall’inganno, l’apparenza dalla sostanza.

Venere in pelliccia è insomma un film fatto principalmente di dialoghi, in cui al centro di tutto c’è un incontro-scontro psicologico costruito con meccanismi sopraffini e magistralmente oleati, dove le musiche di Alexandre Desplat regalano suspense alla rappresentazione e gli oggetti di scena (non solo quelli portati da Vanda per la pièce) si caricano – con derisoria ironia – di valenze simboliche.

E, come spesso avviene nel cinema di Polanski, man mano che la percezione delle cose si fa più angosciosa e il surreale si insinua nel reale, lo  sguardo attento del regista diventa sempre più sardonico e beffeggiante, come mostra il dirompente finale, amaramente grottesco, cupamente farsesco.

Trama

In un teatro di Parigi, Thomas ha trascorso il pomeriggio a fare provini alle attrici alla ricerca della candidata ideale per interpretare la protagonista di Venere in pelliccia. Quando, deluso e stanco, sta per andarsene, compare all’improvviso Vanda. La donna, esuberante ma un po’ volgare, non sembra per nulla adatta alla parte, eppure quando inizia a recitare conquista immediatamente Thomas con la sua inattesa e bravura il suo fascino singolare.


di Arianna Pagliara
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