The Tree of Life

L’opera di Terrence Malick, distribuita nell’arco di quasi quaranta anni, comprende solo cinque lungometraggi. Si tratta di un percorso alieno nell’ambito del sistema filmico americano, una sorta di territorio “altro” nel quale l’autore porta avanti una propria concezione di cinema che non trova riscontri simili (a parte forse il caso di Stanley Kubrick).
Analizzare i suoi lavori significa, dunque, predisporsi a un confronto nel quale i codici del linguaggio audiovisivo e i parametri della critica difficilmente riescono a trovare una loro collocazione/utilizzazione. La sua cinematografica è straniante, senza centri di gravità; è priva di struttura, estranea al contesto autoriale e produttivo del tempo nel quale trova la sua realizzazione. La sua è una lingua ai margini ma allo stesso tempo chiara e leggibile, caratterizzata da un’impostazione filosofica nitida e raggelante, quanto paradossalmente semplice. Il suo modo di girare è aereo, mai prevedibile, caratterizzato dall’ uso frequente della steady-cam e di inquadrature angolate dal basso verso l’alto, e in genere non convenzionali. Come se Malick cercasse sempre l’impossibile, il diverso, il non visibile, lo straniante, il fuori campo, il punto di vista in grado di offrire allo sguardo le infinite variazioni della verità.

The Tree of life rientra perfettamente in questa dimensione della creazione che appare autonoma, ma non autoreferenziale. Terrence Malick, infatti, pur nella negazione sistematica delle regole del cinema, riesce a esprimersi attraverso un sistema di segni che colpisce in profondità la percezione dello spettatore. Scambiare per banale deriva estetizzante la sua ossessione per la perfezione delle immagini significa non aver compreso gli aspetti metaforici della sua narrazione visuale. Il regista americano si esprime grazie a inquadrature tanto potenti e impressionanti superficialmente quanto vertiginosamente fragili nel loro senso oscuro. Anzi, costruisce un impianto formale che gioca proprio su due facce della stessa medaglia: da una parte la riconoscibile forza espressiva della composizione, dall’altra il buco nero di un’elaborazione visiva che allude sempre e comunque al non senso di un’esistenza che sembra  facilmente leggibile quanto impalpabile  e sfuggente. In tal senso, le inquadrature metafisiche, caratterizzate da variazioni cromatiche e neri assoluti, di The Tree of Life si legano con fluidità non convenzionale alle immagini che raccontano le vicende, per nulla straordinarie, di una famiglia borghese degli anni cinquanta.
É proprio questa la sfida di Terrence Malick: mettere sullo stesso piano, con rigore, le imperscrutabili apparizioni di corpi interstellari e galassie e l’evoluzione di una qualunque anonima, squallida, vita sul nostro pianeta.  Malick cerca di ribaltare il punto di vista asfittico e disperato dell’essere umano che si considera il centro del mondo e che colloca il senso di tutto nella sua inspiegabile e non significativa avventura terrena.
Con The Tree of Life, il regista americano costringe il fruitore a una specie di presa di coscienza tragica della propria evidente inutilità nel contesto dei macro-sconvolgimenti dell’universo. Così, le violente ossessioni genitoriali del personaggio interpretato da Brad Pitt e le elucubrazioni interiori del ruolo sostenuto da Sean Penn si configurano come insulse dispersioni di energia che non influiscono in alcun modo nel tessuto dello spazio-tempo, perdendosi in un infinito senza direzione. La natura rimane immobile e totalmente indifferente di fronte alla vita, alla morte e alle sofferenze di esseri umani e animali così come il silenzio di Dio appare assoluto, certo, terribilmente doloroso.

The Tree of Life è organizzato su coordinate temporali del tutto libere da convenzioni; è un labirinto di pensieri, angosce, sentimenti, percezioni, evocazioni, sogni, illusioni e apparizioni che conduce ogni realtà vivente verso l’unico punto di arrivo possibile: quel nulla che insieme ad altri nulla compone il mistero dell’universo.
Non c’è retorica nel cinema di Terrence Malick, né filosofia a buon prezzo ma consapevolezza dell’indecifrabilità del valore dei penseri e delle azioni umane. Dietro questo logica non v’è neanche qualunquismo e relativismo. Tutt’altro. Il richiamo al bene e all’amore è evidente ai limiti dell’ingenuità. Proprio in questa palese imperfezione contenutistica è però rintracciabile il cuore poetico dell’opera: la certezza che ogni azione umana è densa di responsabilità proprio perché frutto di un’esperienza individuale  unica e irripetibile e della posizione di ogni uomo e di ogni donna nell’equilibrio insignificante del mondo.


di Maurizio G. De Bonis
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