The Dinner

Se un best-seller dei giorni nostri (Het diner, dell’olandese Herman Koch, edito in Italia da Neri Pozza col titolo di La cena) viene adattato al cinema per tre volte di fila nel giro di cinque anni e in altrettanti paesi diversi, allora significa che quel libro deve avere qualcosa di veramente speciale. Soprattutto se si pensa che è quasi del tutto privo di azione perché si svolge interamente all’interno di un ristorante di lusso dove un incontro di famiglia si trasforma in un gioco al massacro per via di una storiaccia che lega i clan di due fratelli uniti dal sangue ma divisi da tutto il resto.

E in effetti il romanzo di Herman Koch qualcosa di particolare ce l’ha. In un’epoca in cui l’irresponsabilità e la fuga dall’impegno in nome dell’etica (anche in campo di pedagogia genitoriale verso figli sempre più giustificati nella loro abulia esistenziale) la fa da padrone a ogni livello, il libro di Koch affronta proprio questo tema cruciale. Ovvero l’urgenza che ogni adulto deve sentire dentro di sé di assumersi responsabilità a vario titolo e livello (familiari, civili, sociali, politiche ma anche pedagogiche) che invece vengono sistematicamente aggirate diventando un boomerang letale nel momento in cui tale rinuncia all’impegno si converte in modello diseducativo per i figli.

Ed è forse anche per questo che dopo la versione olandese molto fedele (Het diner, realizzata nel 2013 a un anno di distanza dalla pubblicazione del romanzo e con sceneggiatura firmata da Koch stesso) e quella molto meno filologica ma assai incisiva diretta da Ivano Di Matteo l’anno successivo (il bellissimo e forse sottovalutato I nostri ragazzi), che il regista e sceneggiatore israelo-americano Oren Moverman ha deciso di accettare l’incarico di girarne una terza dopo che Cate Blanchett, cui la produzione aveva offerto la regia, aveva dovuto declinare l’invito perché impegnata su altri set nelle vesti a lei più congeniali di attrice.

Anche se nato come prodotto dichiaratamente su commissione, per il regista dell’acclamato The Messenger (che alla Berlinale del 2009 aveva ricevuto l’orso d’argento per la miglior sceneggiatura), questa terzo adattamento del best-seller di Koch era l’occasione per tornare su temi a lui cari e già strutture portanti non solo nel film d’esordio, ma anche nei successivi e meno riusciti Rampart e Gli invisibili. E cioè soprattutto lo scollamento tra apparenza di facciata e realtà di fatto e il rapporto tra genitori e figli in svariate declinazioni possibili.

Tema questo che è prepotentemente al centro della vicenda narrata in The Dinner. Ma se il plot è ormai arcinoto (sia per la popolarità planetaria di cui il romanzo di Koch ha goduto che soprattutto dalle nostre parti per il film di Di Matteo di tre anni or sono) e non aggiunge molto il gioco delle varianti che si può praticare nel confrontarlo con i due precedenti filmici usando il libro come cartina da tornasole, ben più intrigante è il discorso sulle  forzature che lo sceneggiatore di Io non sono qui e Love & Mercy ha deciso di imprimere al gioco al massacro da kammerspiel che è al centro della vicenda e che non può non far pensare a Carnage di Polanski o ai più recenti Il nome del figlio della Archibugi e Dobbiamo parlare di Rubini.

All’apparenza tutto sembra simile alla ricetta di partenza: due fratelli diversissimi in tutto (il maggiore un potente senatore in corsa per la carica di governatore, il minore un ex professore di storia americana con qualche problema psichico di cui lo spettatore stenta a comprendere sia l’origine che la natura) si ritrovano in un ristorante di lusso per quella che pare essere una normale riunione di famiglia. Ma col passare delle portare che scandiscono a mo’ di capitoli il precipitare della serata verso l’abisso finale, si scopre che il motivo della cena è ben altro: i rispettivi rampolli, tipici prodotti amorali dei guasti del benessere e avvelenati nella propria abulia esistenziale dal virus della medialità sociale, hanno arso viva una barbona dandole fuoco e mettendo poi in rete il filmato che ne documenta il rogo letale.

Fin qui tutto come da copione. E cioè le schermaglie dialogiche tra i fratelli e le rispettive consorti che si avvitano intorno a un dilemma etico più che prevedibile (mentre un maître azzimato che si vorrebbe servire come spiritosa parentesi al dramma in atto offre verbose mini conferenze eno-gastronomiche all’arrivo di ogni portata della cena luculliana): ovvero il doloroso crocevia tra la voglia di proteggere i propri ragazzi nascondendo la verità e l’urgenza di agire in nome della giustizia denunciando l’orrendo crimine affinché i due screanzati eredi possano finalmente guardare in faccia la Vita e crescere pagando il debito che hanno contratto con la società.

Sarebbe poco elegante rivelare come vada a finire il tutto quando la cena approda agli amari e si capisce l’inconciliabilità delle posizioni dei due nuclei (col politico che inaspettatamente è deciso a denunciare il figlio, mentre l’ex docente e la moglie elicottero sono fermi nel proposito di insabbiare il tutto per il «bene» del ragazzo). Basti però sapere che il finale strozzato mentre nulla è ancora risolto dopo che un truce pre-finale sembrava aver indirizzato il climax verso un’apoteosi di violenza si discostano assai sia dal libro che dai due precedenti adattamenti confermando il sapore di prodotto irrisolto che l’intera operazione fa percepire.

Non pago di questo denso coacervo di incastri etici e dell’impegno impostosi di tratteggiare con mano pesante la brutalità da homo homini lupus che si annida dietro la facciata del perbenismo alto borghese, e forse preoccupato che la struttura da dramma da camera del libro convertisse il film in un esercizio di claustrofobia dialettica con bilancio su vite andate variamente a rotoli, Moverman ha deciso di dare aria all’asfissia della cena infarcendo il suo script con una serie di flash-back quasi sempre ridondanti e pensati per illustrare il carattere dei quattro parenti serpenti in scena ma anche per ricostruire la bravata dei ragazzi.

La presenza ipertrofica di questi inserti posticci nuoce però pesantemente alla tensione perché scollega lo spettatore dal dramma che si sta consumando chiamandolo a concentrarsi su temi «altri» che hanno poco o nulla a che vedere con il cuore della vicenda. Al punto che uno dei flash-back più gettonati — l’ossessione del professore per la guerra di secessione americana e la battaglia fratricida di Gettysburg vista come l’inizio della fine dell’innocenza del popolo americano — assume una centralità tale da insidiare quasi la ragione vera dell’incontro-scontro tra le famiglie.

Ed è così che l’indagine nel cuore di tenebra di ricche «scimmie con lo smartphone» (come l’ex-professore definisce il fratello e il resto dell’umanità da lui disprezzata) si converte da satira di un’intera classe e della sua tendenza a violentare la morale comune in ricerca del peccato originale di un’intera nazione. Ovvero quella morbosa passione per la guerra in versione fratricida che il popolo americano ha sempre messo al centro dei propri pensieri e che dal bagno di sangue di Gettysburg arriva dritta fino alla faida fratricida dei due protagonisti.

L’ansia di voler mettere troppa carne al fuoco e l’urgenza di infarcire di tensioni allogene e di ingorghi di temi un testo già di per sé straricco di fibrillazioni esplosive non fa che trascinare l’intera operazione nel territorio ambiguo degli esercizi fini a se stessi. A tal punto che nemmeno la grande prova di Richard Gere (nei panni del senatore e qui al secondo film con Moverman) e soprattutto dell’inglese Steve Coogan (caratterista di razza divenuto celebre per Philomena e superlativo nel dare corpo ai disturbi mentali dell’ex-professore) impedì che alla Berlinale di quest’anno Koch lasciasse la sala a metà film imbestialito dalla «peggiore trasposizione» a tutt’oggi fatta del suo best-seller.

Trama

Stan Lohman, ricco e potente senatore in corsa per la carica di governatore, e la giovane moglie Katelyn invitano a cena in uno dei ristoranti più esclusivi della città il fratello minore di lui Paul e la cognata Claire. Quella che sembra essere una normale riunione familiare, si rivela invece l’occasione per un gioco al massacro durante il quale le due coppie — chiamate ad affrontare il «segreto» di un terribile omicidio commesso dai rispettivi figli e ancora impunito —si trovano di fronte al doloroso dilemma morale tra la voglia di proteggere i propri ragazzi nascondendo la verità e l’urgenza di agire in nome della giustizia. Col procedere delle portate i rapporti si incrinano in un tutti contro tutti che mette a nudo la vera natura dell’homo homini lupus nascosta sotto la superficie perbenista delle convenzioni sociali e delle apparenze borghesi.


di Guido Reverdito
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