Tabù – Gohatto

gohatto

gohattoTabù – Gohatto di Nagisa Oshima è un’opera formalmente perfetta, di grande bellezza, ma assolutamente gelida.
L’amore è più freddo della morte, titolava Rainer Werner Fassbinder uno dei suoi film e non si può non richiamare alla memoria un’espressione del genere di fronte ai vari protagonisti della pellicola del regista giapponese, apparentemente tutti preda della passione nei confronti dell’adolescente Kano, in realtà privi di ogni emozione e fisicità.
Tratto dai racconti di Ryotaro ShibaTabù è, infatti, costruito attorno alla figura del diciottenne Kano, allievo dello Shinsengumi, nato per proteggere lo Shogun contro l’imperatore.
L’efebico ragazzo, come l’Ospite inatteso di Teorema di Pier Paolo Pasolini, attrae irresistibilmente, ad uno ad uno, tutti i personaggi con i quali viene a contatto
. Nessuno sfugge al suo fascino: persino il controllatissimo luogotenente Hijikata è costretto, ad un certo punto, a chiedersi perché, sia lui stesso che l’altro comandante, finiscano per essere sempre indulgenti con il nuovo arrivato.
Il complicato e sotterraneo sentimento che unisce i guerrieri tra di loro è reso esplicito in una delle sequenze più belle: quella in cui un giovane samurai dice di aver letto “I racconti della luna pallida” e di averne tratto la morale di non stringere mai rapporti d’amicizia con gente frivola. In altri termini: nessuno riuscirebbe mai ad uccidere, o uccidersi, per mantenere la parola data, se non per amore.
Sono, dunque, al centro di questo film, più che l’omosessualità in senso stretto, temi quali la relazione maestro-allievo, il sacrificio, il legame indissolubile bellezza-morte.
Non a caso, la riflessione conclusiva sull’intera vicenda è affidata al comandante Hijikata che, dopo aver ricordato l’eccessiva avvenenza di Kano, non esita ad affermare che il ragazzo era posseduto dal male.

Come l’androgino Tadzio di Morte a Venezia di Luchino Visconti, anche l’ambiguo samurai provoca, con la sua sola presenza, caos e sconvolgimento nelle esistenze che si incrociano con la sua. La bellezza contiene in sé un potere devastante che la rende pericolosa ed eversiva. Per questo va sradicata: come l’albero fiorito che, nella sequenza finale, Hijikata distrugge senza pietà, per porre, simbolicamente, fine al suo incubo e a quello della milizia tutta.
In quest’ultimo lavoro di Oshima confluiscono, quindi, una serie di caratteri precisi del decadentismo: il senso del declino di una cultura, la coscienza di trovarsi alla conclusione di un ciclo storico – nel 1869 l’imperatore Mutsu-Hiro ristabilisce la monarchia assoluta e determina la fine dei samurai – e, soprattutto, il corteggiamento della morte, sotto le forme della bellezza.
Un’opera che non sarebbe, probabilmente, spiaciuta al Visconti esteta e decadente di La caduta degli deiLudwig.


di Mariella Cruciani
Condividi

di Mariella Cruciani
Condividi