Singing in Graveyards – SIC 2016

Il regista e produttore malese, residente nelle Filippine,  Bradley Lew ha solo 26 anni ma è gia molto attivo sulla scena cinematografica dei due paesi, al punto che da produttore è impegnato in uno dei prossimi progetti del regista di culto Lav Diaz (When the Waves are Gone). La Settimana Internazionale della Critica ha intercettato questo suo ambizioso e per molti versi notevole debutto cinematografico (di cui firma anche il montaggio e la sceneggiatura) per il quale è riuscito a portare in scena Pepe Smith, leggenda vivente (classe 1947) del ‘Pinoy-rock’ , versione autoctona, anche per l’uso della lingua tagalog, del rock, poi diventata un sottogenere musicale anche oltre i confini del vasto arcipelago asiatico. E, come da sempre il rock, anche gesto politico, tanto che, nel 1980,  la band di Smith diede un concerto contro la lunghissima dittatura della famiglia Marcos.

L’ambizione  risiede principalmente nel fatto che – per quanto intimamente legato  al personaggio di Pepe Smith  (tra l’altro sbarcato in carne ed ossa al Lido), alla sua particolare avventura musicale e alla composita cultura di quel Paese – il film  affronta una tematica universale: il conflitto tra l’artista e il suo “doppio”, ovvero l’uomo (o la donna) reale dietro i ruoli e le maschere indossate su un palcoscenico o dietro un obiettivo.

Anche qui, come in tanti illustri esempi tra teatro letteratura e cinema, l’uomo e il personaggio coincidono, e la storia mette in scena uno “sdoppiamento”, dove Pepe Smith  interpreta il vero se stesso, ma soprattutto un suo “impersonatore” (privilegio che occorre solo ai più grandi,  come nel caso di Elvis), il quale ovviamente ha la sua stessa ormai avanzata età, magrezza e andatura dinoccolata (Smith era soprannominato nell’ambiente “il cadavere”).  Per sbarcare il lunario, questa sua “copia” si esibisce in un locale ambiguo, una specie di night bar di second’ordine, nel cui retro  (adibito ad abitazione) coltiva i sogni e fantasmi del passato, impregnati da una vena mistica e animista tipica della sua cultura.   Sin quando un giorno un impresario ambiguo e guascone (interpretato proprio da Lav Diaz…)  gli propone di aprire il mega-concerto che dovrebbe segnare il ritorno sulla scena del suo vero idolo, lo Smith “originale”. A un patto: comporre, nel mese che manca all’evento, una canzone d’amore. Ma, nonostante gli sforzi laceranti, questa canzone non salterà fuori…

Più che un dettaglio narrativo risiede in questo il motivo ispiratore del film:  secondo il racconto dello stesso regista, quando nel 2013 conobbe Pepe Smith, parlando con lui della  sua musica, l’artista gli rivelò di non aver mai scritto una canzone d’amore. Arte versus amore, un altro antico conflitto.  Anche il suo alter ego nel film è così assorbito dalla musica e dalla sopravvivenza quotidiana che le sue relazioni amorose appaiono decisamente fallimentari: la ex moglie, ora un’affermata gallerista, lo fulmina con un velenoso “Rock is dead, old man!”, la giovane (troppo giovane per lui) aspirante attrice (che è Mercedes Cabral, altra icona del cinema filippino) lo molla quando lui tenta alcune avances. Anche il famoso concerto alla fine sarà cancellato. Il naufragio assoluto, sentimentale e professionale, era del resto scolpito nel volto scavato e rugoso di Smith (la cui interpretazione risulta sempre assai credibile), mentre il senso di morte sempre incombente nel film trova il suo climax in due efficaci sequenze: quella che dà il titolo al film, quando Pepe suona al cimitero davanti alle tombe dei componenti della sua ex band,  e l’incontro finale, in un teatro vuoto ed enorme, con il vero Smith.

Liew  è bravo nel maneggiare tutta questa complessa materia (innervata di continuo dalla musica pulsante della colonna sonora, sia live che riproposta da brani d’archivio) e nel gestire con fluidità narrativa e di  montaggio i frequenti passaggi tra scene reali e sognate. Un po’ ridondanti risultano peraltro gli inserti di sapore più surreale (come una capretta che con troppa insistenza attraversa le scene)  e la durata complessiva dell’operazione (143’), forse un omaggio del giovane regista al nume Lav Diaz  (per il quale però sono spesso i grandi spazi a giustificare, anzi a “spiegare” il tempo e la sua durata, mentre il film di Liew muove in spazi assai ristretti, e a volte persino claustrofobici).

Anche per la sua età, il film rivela comunque un autore da seguire. E  ci consegna anche, tra le pieghe della storia, alcune istantanee sulle odierne contraddizioni di un Paese da alcuni mesi nuovamente nelle mani di un politico autoritario (da tempo tristemente noto a tutte  le organizzazioni mondiali,  governative  e non, per i diritti umani) come Rodrigo Duterte.


di Redazione
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