SIC 2015 – Jia (The Family – La famiglia)

Loro, per divertirsi, intendono agitarsi il più possibile. Io volevo godermi il tempo: guardavo e osservavo!  – dice una donna di Operai, contadini, film di Straub-Huillet del 2001. Il desiderio di “mettersi comoda e di sentire gli altri” è un invito allo spettatore a fare altrettanto, accantonando tempi e modi usuali e lasciandosi andare alla visione. Non si può non pensare a questo, quando ci si accinge a misurarsi con Jia, opera prima di durata eccezionale (4 ore e 40 minuti!) di Liu Shumin, regista cinese con cittadinanza australiana. Va precisato, però, che se nelle opere di Straub-Huillet, il testo non è mai recitato ma sempre citato, qui, al contrario, non c’è nessuna ricerca di “straniamento” quanto una vera e propria immersione nella realtà rappresentata.

Girato in 35mm e con straordinari attori non professionisti, il film di Shumin è la cronaca del viaggio, attraverso una Cina divisa fra il rispetto delle consuetudini e i rapidi cambiamenti imposti da un’economia capitalistica, di due anziani genitori che decidono di far visita ai figli ormai adulti. La trama , esilissima, è la stessa di Stanno tutti bene (1990) di Tornatore, con la differenza che, in quel caso, ad andare a trovare i figli era un vedovo siciliano, interpretato da Mastroianni. Nel 2009, poi, è stato realizzato un remake della stessa pellicola, ad opera di Kirk Jones, con De Niro nei panni del vecchio padre.

Analogie superficiali a parte, appena si entra nell’universo familiare portato sullo schermo da Shumin, si comprende immediatamente che il punto di riferimento del regista è, senz’altro, Ozu e il suo Viaggio a Tokyo (1953). In entrambe le opere, è centrale il tema di un Paese in trasformazione (per Shumin, una Cina in bilico tra tradizione e modernità) ma il vero fulcro della narrazione è l’incomunicabilità tra  generazioni, resa attraverso allusioni mai dirette e con pudore commovente.

Liu e Deng, i due settantenni del film cinese, sono una coppia ordinaria, con tre figli: la maggiore, Liqin, è divorziata e vive con loro, insieme al figlio adolescente. Xiaomin, la seconda figlia, e Xujun, il figlio minore, sono sposati e vivono, con le rispettive famiglie, in città lontane. Con stile rigoroso e sicuro, il regista ci introduce, pian piano, nella vita quotidiana dei personaggi: vediamo la madre pulire il riso, preparare il pesce, cucinare, spicciare la casa mentre il padre guarda la  tv, gioca ai videogiochi o sfoglia album di foto ingiallite. Persino quando sono in bagno e si lavano i denti o si pettinano, il regista non abbandona i suoi “eroi” e ci mostra, in tempo reale, le azioni più semplici e comuni.

In questo modo, il cinema restituisce il reale: sullo schermo non c’è più una copia del mondo, ma la realtà stessa, in una delle sue manifestazioni. Come direbbe Deleuze: il cinema “pensa” non perché “dice” ma perché esperisce l’essere o, più semplicemente, presenta una forma di esistenza.  E’ esattamente questo che l’opera prima di Shumin sembra, ambiziosamente, voler realizzare attraverso la creazione di quella che potremmo definire un’ “immagine-realtà.”

E’ chiaro che non si tratta di un cinema per tutti e che anche il cinefilo più appassionato finisce, a tratti, per perdersi ma è una sfida da accogliere per recuperare la capacità di godere del silenzio, della lentezza e del significato profondo delle parole. Come avviene nella sequenza più toccante del film – una delle poche “parlate” – in cui Deng, la madre, rievoca con tenerezza e passione, l’origine della famiglia: il suo primo incontro con Liu, il padre. Insomma, se si mettono da parte le aspettative legate alla visione cinematografica tradizionale (la narrazione, il coinvolgimento “facile”, il didascalismo), Jia può riservare, a chi è in grado di riconoscerli, non pochi momenti di verità e di bellezza, misti a sorprese dolorose. Proprio come la vita!

La scheda di Jia /The Family: cast, crediti, sinossi


di Mariella Cruciani
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