La New York del Joker

Tutta l’azione di Joker si svolge a livello strada, quando non più in basso – i tunnel della metropolitana, i comedy club nei seminterrati. Viene annullata ogni velleità di verticalità, e New York/Gotham non ha squarci di cielo, perde la sua veste iconica per riscoprirsi lurida. Anche metaforicamente.

Tutta l’azione di Joker si svolge a livello strada, quando non più in basso. Viene annullata ogni velleità di verticalità, e rimossi gli squarci di cielo.

Per la saga di Batman la città di New York, rinominata Gotham City, ha sempre avuto un rilievo speciale, al punto da diventare imprescindibile coprotagonista. Il Batman di Tim Burton ne sottolineava soprattutto l’aspetto gotico (Goth-am), quello di Christopher Nolan il lato oscuro, ma nessuno dei registi che hanno raccontato l’Uomo pipistrello ha rinunciato ad uno degli elementi caratterizzanti della Grande Mela: la verticalità. Quella verticalità che, nello Spider Man di Sam Raimi (per emigrare in un universo supereroico confinante) era addirittura diventata la riparazione simbolica del vulnus inferto all’immaginario collettivo dal crollo delle Torri Gemelle.
Il Joker di Todd Phillips rimuove invece chirurgicamente quella verticalità: in quali altri film contemporanei ambientati a New York non si vede neanche un grattacielo? Tutta l’azione di Joker si svolge a livello strada, quando non più in basso – i tunnel della metropolitana, i comedy club nei seminterrati – percorre vicoli bui e sporchi o entra in interni angusti e soffocanti delimitati da corridoi, stipiti, ascensori che salgono faticosamente e si bloccano regolarmente prima di raggiungere il piano prescelto.
Il profilo iconico della città, quello che i turisti intercettano con meraviglia arrivando dall’aeroporto e che gli abitanti degli altri quartieri di New York City contemplano dalle sponde di Brooklyn o dal ferry di Staten Island, in Joker si staglia alla fine di una lunghissima autostrada, meta puramente aspirazionale lontanissima, probabilmente irraggiungibile. E la scala che Arthur Fleck affronta ogni giorno tornando a casa è più una via crucis che un’ascesa: l’unico momento in cui Arthur la percorrerà sorridendo sarà in discesa, nei panni del Joker, dopo la scelta definitiva di appartenere al sottomondo invece che alla città verticale.

La scena di Tempi moderni cui Arthur assiste è quella in cui Charlot rischia continuamente di precipitare dentro una voragine architettonica; lo studio in cui ha luogo il talk show di Murray Franklin, al contrario del Letterman (e di molti altri salotti televisivi newyorkesi che vantano come fiore all’occhiello la loro postazione ai piani alti) non mette in mostra lo skyline di Manhattan da un finestrone alle spalle del conduttore.
A ben guardare, per stile registico e per scelta orizzontale, Joker ricorda quel Midnight Cowboy il cui titolo in Italia è diventato Un uomo da marciapiede, riferendosi non solo alla professione del cowboy protagonista ma anche alla sua esistenza rasoterra (e il suo compagno di sventura Ratso Rizzo è fin dal soprannome equiparato ad uno di quei roditori giganti che infestano le fogne newyorkesi). Molto cinema di fine anni Sessanta e Settanta, in particolare quello di autori “stranieri” come Schlesinger, ma anche quello di un nativo newyorkese (americano di seconda generazione) come Martin Scorsese, si muove all’altezza delle mean streets.
La tensione verso l’alto in Joker è visivamente azzerata perché nel mondo di Arthur Fleck non esiste la possibilità reale di sollevare lo sguardo, e dunque anche al pubblico non è consentito guardare in alto, vedere il cielo o la cima dell’Empire, del Chrysler o del Rockefeller, uscire da quei loculi e quei cunicoli attraverso i quali, come un ratto, è costretto a muoversi Arthur Fleck, che dunque si torce come un derviscio, si snoda in movimenti di tai-chi, si dispiega in laterale, invece che in alto e in avanti per possedere quello spazio orizzontale al quale si ritiene confinato: almeno fino a quando non accetterà fino in fondo il suo destino discendente.


di Paola Casella
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