Pericle il nero

Dopo soli due film realizzati nell’arco di undici anni (Provincia meccanica del 2005 e Acciaio del 2012), con questa sua opera terza in concorso nella sezione Un certain Régard di Cannes il quarantasettenne toscano Stefano Mordini arriva a una forse inattesa consacrazione nell’empireo del cinema che conta, convertito — come capita a chiunque vi approdi — da semplice regista di qualità in «autore» in quella che a detta di tutti è la più importante vetrina di cinema al mondo.

Un approdo quello di Mordini al Festival francese difficile da pronosticare soltanto mesi fa. E non solo per il fatto di essere un regista piuttosto appartato e con alle spalle un numero fin troppo esiguo di lungometraggi per richiamare l’attenzione del selezionatori, ma soprattutto per la travagliata vicenda produttiva avuta dal polar camorristico di impianto letterario e lontanissimo dalle tendenze modaiole in TV con cui Mordini è arrivato sulla Croisette.

Definire questo film un parto complesso è infatti una figura retorica di comodo. A partire già dal romanzo di cui Pericle il nero è l’adattamento più o meno (in)fedele. Pubblicato presso Granata Press con lo pseudonimo di Nicola Calata nel lontano 1993 dall’ischiano Giuseppe Ferrandino (noto agli appassionati più che altro come autore di fumetti e di graphic novel di culto) e passato del tutto inosservato, due anni dopo divenne un caso editoriale in Francia quando Gallimard ne acquistò i diritti includendolo nella sua prestigiosa collana «Série noir». A seguito di quel successo Adelphi lo ristampò nel 1998 convertendolo in caso letterario anche dalle nostre parti.

Ma le cose non sono state più semplici nel passaggio al cinema. Nel 2005 si era sparsa voce che Francesco Petierno ne avrebbe curato la trasposizione sul grande schermo col «guerriero» Taricone nei panni del protagonista. Di lì a poco era subentrato addirittura Abel Ferrara come probabile regista dell’operazione il quale aveva pensato a Riccardo Scamarcio per cucirgli addosso gli ostici panni antropologici di Pericle. Ma anche in quel caso non se n’era fatto nulla. A ridare impulso al tutto è stato lo stesso Scamarcio: questa volta però non solo nei panni del protagonista del romanzo ma anche in quelli di coproduttore, avendo finanziato parte dell’operazione con la sua casa La buena onda insieme ai fratelli Dardenne (con cui aveva già lavorato ne La prima linea) e al francese Alain Attal.

Con l’azione spostata da Napoli e Pescara (luoghi in cui Pericle vive il suo violento road movie nel romanzo) alle cupe atmosfere del Belgio e di Calais, il film di Mordini mantiene intatto uno degli aspetti più originali del libro di Ferrandino. E cioè la grande attenzione allo scavo interiore e allo studio analitico della personalità del protagonista, che nel romanzo raccontava in prima persona la sua odissea nel cuore nero della manovalanza camorristica, mentre qui viene pedinato dalla macchina da presa che lo insegue paziente mostrandolo mentre si dibatte nel suo eroico tentativo di inventarsi un’uscita di emergenza esistenziale dopo aver commesso un errore destinato a costargli fin troppo caro.

Il cambiamento di location non è però soltanto un elemento esterno dettato dalle ragioni della coproduzione. Vista l’ormai quasi fastidiosa tendenza modaiola che ha convertito il fenomeno camorristico in un forte elemento di traino in TV (prova ne sia l’attesa quasi messianica che ha accompagnato per settimane l’esordio sul piccolo schermo della seconda stagione della serie Gomorra, a sua volta lanciata dall’enorme successo tributato alla prima), la decisione di Mordini e dei due co-sceneggiatori di trasferire l’odissea malavitosa di Pericle dal ventre malato di Napoli ai cupi grigiori del Belgio e di Calais è stata dettata anche dall’ormai eccessiva caratterizzazione del contesto partenopeo e dall’abuso quasi sfrontato che se n’è fatto in questi ultimi anni.

Il tutto anche per dimostrare che il fenomeno mafioso da esportazione può essere epicizzato anche in modo diverso. Prescindendo cioè sia dalla tendenza glamour che la serie TV Gomorra sintetizza al meglio, ma anche dallo scrupolo da approccio antropologico tipico di chi si rapporta al tema come hanno fatto gli autori di quel piccolo capolavoro che resta Anime nere. E cioè una sorta di «terza via» nella quale le atmosfere di genere care al noir transalpino si sposino al meglio con quelle del gangster movie «de noiantri», qui però impreziosite da toni dark vagamente surreali e da un gusto per lo scavo psicologico di solito inusuali in questo tipo di film.

E in questo Mordini dimostra di aver fatto tesoro dell’esperienza maturata nei suoi due precedenti lungometraggi. Anche nel tratteggio del suo Pericle — che a causa del modus operandi con cui punisce per conto terzi quanti sgarrano avrebbe rischiato di diventare una macchietta tragicomica nel trasferimento sul grande schermo — il regista toscano mostra di avere grande familiarità e felicità descrittiva quando si misura con figure di dropout ai margini di ogni forma di socializzazione ma anche con gli scenari di desolazione suburbana che caratterizzavano col loro grigiore plumbeo gli interni dell’anima e gli esterni del mondo sia in Provincia meccanica che nel successivo Acciaio.

Se però l’operazione si può dire più che riuscita, buona parte del merito va attribuita a Riccardo Scamarcio. Anche se forse un po’ troppo bello e dannato (non ostante l’evidente sforzo dei truccatori di sporcarne il bel volto con tratti di animalesca brutalità) per non sembrare eccessivamente carismatico, il suo Pericle è un personaggio così cupamente torvo e primordiale nella gestione di emozioni e rapporti umani da ritagliarsi nella memoria degli appassionati del genere un posto che in futuro pochi altri personaggi avranno la forza di insidiare.

E se un difetto lo si vuole trovare a tutti i costi (con buona pace di quanti rimpiangeranno di ritrovare nella versione cinematografica solo un’esigua porzione di quel magnifico pastiche linguistico che era il bofonchiare pseudonapoletano messo in bocca da Ferrandino al suo Pericle), lo si può identificare nella forse voluta rinuncia ad approfondire il rapporto che questo terrificante anti-eroe da mondo di mezzo ha con il proprio passato e con la città che l’ha partorito infliggendogli le stigmate di una condanna al Male.

Napoli resta intenzionalmente sullo sfondo, relegata ai personaggi di Luigi Pizza (il boss da cui Pericle dipende e per il quale sodomizza quanti non si mostrano propensi a cedergli la propria attività) e al bieco sottobosco anonimo dei guaglioncelli da esportazione che si mettono sulle sue tracce quando è costretto a darsi alla macchia convinto com’è di aver fatto accidentalmente fuori la sorella di un capo clan avversario (anche se poi — nel finale ricco di riusciti colpi di scena e agnizioni da commedia plautina —emerge che le cose non sono proprio andate così).

Pericle è un paladino dell’amoralità che vive in un eterno presente nel quale non brillano i lustrini illusori di un futuro possibile (con tutto che il tono parzialmente consolatorio e aperto a scenari di pacato ottimismo della sequenza di chiusura potrebbe far pensare a qualcosa di diverso in proposito), né però si intravedono le ombre minacciose del passato. Di lui e dell’universo che l’ha partorito rendendolo quello che è non si sa infatti nulla. Come se Mordini volesse dirci che Napoli va lasciata da parte. Perché impossibile da raccontare se non vi si appartiene ma soprattutto perché ormai troppo inflazionata e di moda per essere credibile anche se madre e matrigna di creature dal cuore di tenebra come Pericle.

Trama

Pericle Scalzone, detto Il nero, è un soldatino della criminalità organizzata che di lavoro «fa — letteralmente parlando — il culo alla gente» per conto di un boss della camorra partenopea in trasferta in Belgio. Durante una spedizione punitiva per conto del proprio capo, Pericle esagera nella sua azione punitiva e commette un grave errore che diventerà la sua condanna a morte. In una rocambolesca fuga che lo porta a nascondersi a Calais, Pericle incontra una donna francese che lo accoglie senza giudicarlo e gli offre quasi involontariamente un’uscita di emergenza verso un futuro meno inquieto e violento.


di Guido Reverdito
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