Oltre le colline

Il regista rumeno Christian Mungiu è uno dei pochissimi autori che regge lunghezze narrative fuori del comune: si ha l’impressione che due ore e mezzo siano la sua durata ideale. Del resto, sembra avere ragione ad insistere su questo che per molti suoi colleghi è un limite nell’interesse da parte del pubblico. Il precedente 4 mesi 2 settimane e 3 giorni, premiato a Cannes con la Palma d’oro era attorno a questa lunghezza e ha ottenuto più che un buon successo.

La storia raccontata e la messa in scena senza elementi melodrammatici priva lo spettatore di facili emozioni, se vogliamo limita la possibilità di una catarsi. Eppure affascina, coinvolge quasi fossimo di fronte ad un thriller in cui gli elementi sono sapientemente dosati per creare l’attesa di sviluppi sicuramente prevedibili ma non per questo meno interessanti. Tutto è raccontato in stile minimalistico, le immagini volgono a tonalità da bianco e nero, nessun effetto è presente nella struttura narrativa ma non per questo è assente l’emozione,

Tema comune del film Palma d’oro e di questo è l’analisi di un’amicizia al femminile. Questa volta Mungiu prende spunto da una vicenda realmente accaduta nel 2005 in un convento della Moldavia dove una giovane morì in seguito alla celebrazione di quello che fu definito da molta stampa come un vero e proprio esorcismo. Sull’argomento due libri della giornalista rumena Tatiana Niculescu Bran, l’incontro alcuni anni orsono a New York tra il regista e la scrittrice, una lunga gestazione e, alla fine, il film.

La vicenda è completamente riscritta e solo ispirata ai fatti reali. Mungiu parte da questa tragica storia per portare avanti una dura critica sulla religione che non è in grado di rinnovarsi e sulla sua forza anche devastante, sul desiderio di molte persone di cercare in questa reclusione volontaria la sicurezza che nella società non riescono a trovare, sull’amore a tutti i livelli con mogli che si rifugiano in convento per evitare la convivenza col marito ma anche il rapporto forse lesbico delle due protagoniste, sul difficile ed impalpabile limiti che può separare il bene dal male, sulla veloce trasformazione dell’amore in odio. Non manca il riferimento agli orfanatrofi istituiti dal dittatore Nicolae Ceausescu, criticati da tutti ma ancora in funzione con gli stessi ‘sistemi educativi’ e gli stessi dirigenti: nulla è stato fatto per rendere più umani questi luoghi che assomigliano di più a riformatori che non a case di benevola accoglienza per chi è rimasto solo al mondo.

Se non ci fossero riferimenti precisi ai giorni nostri sembrerebbe che il film sia ambientato nel passato. Nel convento non c’è la luce elettrica, non esiste l’acqua corrente, il cibo scarseggia, i vestiti colorati sono considerati simbolo del peccato come qualsiasi orpello femminile, le visioni delle donne sono considerate come segni della benevolenza o del castigo di Dio ma anche tangibile presenza del Demonio.

Sempre con riferimento alla religione madre e matrigna c’è il vescovo che non vuole consacrare la chiesa del convento perché mancante di affreschi ma anche per evitare che la forza di persuasione del sacerdote possa fare realmente pensare le persone. Il suo comportamento verso le suore non è soltanto da padre spirituale: è il padrone della loro vita, impone qualsiasi cosa, da lui dipende perfino il permesso di andare al mercato, può provocare la morte senza per questo essere da loro giudicato negativamente.

Impone ad Alina la confessione che lei non vorrebbe, le dà l’elenco dei 464 peccati contemplati dalla religione ortodossa e la costringe ad accettare l’aiuto morboso delle suore privandola del conforto del segreto, si stupisce quando la Polizia fa domande da lui ritenute offensive perché si ritiene un illuminato. Del resto, spesso la madre superiora dice che basta una sua preghiera perché avvengano miracoli, anche grazie ad una icona tenuta nascosta agli occhi di tutti.

E’ proprio l’uomo il centro vero del film, attraverso di lui avvengono o non avvengono le cose. Interpretato con bravura da Valeriu Andriuta, che ha lavorato in 7 cortometraggi di Mungiu nonché nel film Occident, è personaggio difficile da giudicare perché sbaglia in buona fede ma non ha mai un vero dubbio. Il quarantacinquenne attore e regista rumeno è nome importante anche nel panorama internazionale, lavorando soprattutto per i teatri nipponici e scrivendo testi di buon spessore: vari momenti e sviluppi della caratterizzazione dell’abate sono stati da lui suggeriti al regista.

Voichita, la giovane religiosa, è interpretata dalla ventottenne attrice teatrale Cosmina Stratan nata anche lei a Iasi come il regista. Scuola di giornalismo, poi studi a Bucarest e l’inserimento nel circuito del teatro oltreché l’interpretazione di vari corti: attualmente è considerata una delle migliori attrici giovani del suo paese. Per il suo debutto nel lungometraggio un ruolo difficile che interpreta con grande bravura: silenziosa, succube di tutto e tutti, forse prende coscienza di quanto accade durante la scena finale.

Tra tutti i personaggi femminili, il più significativo è quello di Alina, una donna che per amore sacrifica completamente se stessa. Ha slanci da ragazzina ma la forza di chi non accetta compromessi. La bravissima interprete è la trentaquattrenne Cristina Flutur anche lei nativa di Iasi dove ha studiato lingue all’università prima di andare a scuola di recitazione. Dopo la laurea nel 2004, ha iniziato a lavorare al teatro nazionale a Sibiu di cui continua ad essere parte. Questa è la sua prima esperienza cinematografica e, forse, il valore aggiunto è fornito dalla capacità di urlare il suo personaggio, come se fosse sul palcoscenico interprete di una tragedia greca.

Il finale del film è aperto a varie letture, diversa la realtà del fatto di cronaca: il sacerdote e le suore sono stati processati, condannati, e la chiesa ortodossa li ha scomunicati: ovviamente, quel piccolo convento non voluto da nessuno è stato chiuso. Nel rito esorcistico vengono letti testi e preghiere scritte da San Basilio. Dopo i problemi avuti, la Chiesa Ortodossa ha deciso da quest’anno di proibirle. Ma, in realtà, non risulta che questo divieto abbia convinto i fedeli a non utilizzarlo più per tentare di scacciare il Diavolo.

TRAMA

Voichita ed Alina sono cresciute in un orfanotrofio. Uscite dalla struttura la prima si rifugia in un isolato monastero ortodosso, l’altra viene affidata ad una famiglia adottiva dalla quale fugge per andare in Germania. Alina, che ama Voichita sin da quando erano bambine, torna dalla Germania per convincere l’amica a seguirla e a lavorare come cameriere su nave. Ma la ragazza considera le suore e il religioso, loro padre spirituale, come una famiglia. Nel tentativo di riconquistarla, l’amica cerca lo scontro con il mondo dove l’amica vive; violenza intellettuale, morale e, alla fine, fisica.


di Redazione
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