Mulholland Drive

Mulholland drive

Mulholland driveSolitamente i labirinti hanno tre dimensioni: una si estende in altezza, una in larghezza e una in lunghezza. Spesso bastano queste tre, come dimostrano tanti esempi della letteratura e del cinema, da Borges a Kubrick, per creare non poche difficoltà agli incauti che decidono di addentrarvisi (vedi il sorrisetto surgelato di Jack Nicholson nel finale di Shining). Se poi si decide di aggiungere anche la quarta dimensione, quella che si estende nel tempo, si rischia veramente di non uscirne vivi.
Mullholland driveè un labirinto a quattro dimensioni.

David Lynch, dopo la magnifica parentesi solare (ma crepuscolare) e poetico-agricola di The Straight Story (pessima traduzione italiana: Una storia vera), torna alle atmosfere vellutate ed inquietanti delle sue pellicole più criptiche e costruisce, pescando a piene mani nel suo immaginario vecchio e nuovo. I “feticisti-lynchiani” sono invitati a perdersi tra la folla dei personaggini surreali ripresi, di seconda mano, dalle parti di Twin Peaks o di Strade Perdute, ma questo è un complicatissimo ed irresistibile labirinto per ogni tipo di spettatore. È un piacere per gli occhi navigare in queste immagini a base di blu e di nero, farsi cullare dai movimenti di macchina ipnotici, rassicuranti e vellutati, seguire, con le pupille che vagano in completa indipendenza dal cervello, le infinite suggestioni della sceneggiatura che si trasforma in immagine simbolica in attesa di interpretazione. In questo senso, sarebbe decisamente inutile fare anche solo un piccolo accenno alla sinossi: il film si dipana in una serie di sequenze che, tramite semplici associazioni mentali o arditi voli, generano altri significanti pronti per essere dati in pasto, e per dare filo da torcere, ai forzati del “filo logico”.
Mulholland driveIl regista-demiurgo, sapiente architetto di questa costruzione labirintica, si compiace nel creare uno spiazzamento sistematico, nel fare intravedere chiavi di lettura (reali e mostrate, ma tanto più finte perché fatte di cinema, di pellicola e di luce) incapaci di aprire le scatole nere (o blu), le camere oscure, gli scrigni all’interno dei quali è custodito il “senso”. La dimensione tempo agisce dentro e fuori dallo schermo, mischiando le carte in tavola, spostando le pareti, trasformando strade aperte in vicoli ciechi. La realtà, in un battere di ciglia, diventa finzione, e la finzione realtà; non è un caso che uno dei momenti più toccanti e più veri del film sia il provino su parte della giovane attrice, mentre tantissime altre sequenze (dal lesbismo patinato ad uso e consumo di un pubblico maschile, alla scoperta da parte della protagonista, vittima di amnesia, del proprio cadavere putrefatto, all’assurda folla del mondo del cinema) hanno l’andamento, i colori e l’inverosimile plausibilità del sogno e dell’incubo.

Impossibile resistere alla tentazione di dare una propria lettura: questo è uno dei più geniali ed intricati film sul cinema degli ultimi anni. Ma, come tutti i labirinti che si rispettino, questo film si può vedere e percorrere ogni volta in un modo diverso, all’infinito. I 146 minuti della durata ufficiale sono solo una piccolissima parte del percorso che lo spettatore intraprende mentalmente quando sfumano le splendide note di Angelo Badalamenti.
Un film a cui pensare e ri-pensare in “silencio”; già, perché è proprio questa la parola chiave: Silencio…

Ludovico Bonora

Note critiche di Piero Spila

In Mulholland Drive di David Lynch ci sono molti viaggi nella notte e molti incontri nel bosco, ci sono luoghi magici e mele stregate, e soprattutto c’è una Hollywood vista come un vaso di Pandora, da dove escono di continuo fate e orchi, e dove i sogni diventano presto degli incubi. Tutti i personaggi del film vivono la propria storia privata ma possono anche indifferentemente scambiarla tra loro, perché a quanto pare non conta chi vive i sogni o gli incubi, ma solo cosa si vive o si è vissuto o si vivrà. Tutto è scritto e niente dunque importa: è la legge declamata dall’attore in scena sul palcoscenico del Silenzio Club, un luogo che è un po’ anche l’unico codice interpretativo di un film, per il resto misterioso e incomprensibile. Al termine della loro corsa, le due ragazze protagoniste, Diane, l’attricetta bionda che insegue il suo sogno (la carriera, l’ amore), e Camilla, la dark-lady bruna che fugge dal suo incubo (una rivoltella puntata alla testa, un terrificante incidente d’auto) assistono alla messa in scena di un destino segnato: una ragazza, truccata e in lacrime, canta la sua canzone d’amore e muore, ma la sua voce incisa sul nastro continua a cantare. Appunto, tutto è già scritto, e ci sarà un altro che continuerà a cantare.

In un film sperimentale e per molti versi riepilogativo (giustamente si è parlato di una sorta di «Il meglio di …»), David Lynch ribadisce che la punta più alta del suo cinema è la scrittura del sogno, e il suo talento narrativo diventa quasi irresistibile soprattutto quando scardina ogni regola, sovvertendo la logica e le attese, e divertendosi a declinare il classico binomio di causa-effetto con la libera associazione, il delirio, la paura. Il Caos descritto morbosamente da Lynch è impressionante perché parte sempre dalla coscienza di un Ordine razionale quanto velleitario. Che è quello di chi crede di poter governare il proprio destino sulla base di valori più o meno accettabili o di un tornaconto che verrà invece sempre azzerato. Vale per Hollywood, la città dei sogni e delle grandi majors, attraversata però da disperati che cercano scampo e mafiosi che decidono i casting, costellata da complessi residenziali claustrofobici come lager; vale ancora di più per la vita raccontata da Lynch con i suoi film, sempre effimera, sempre sull’orlo di qualche baratro.


di Ludovico Bonora
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