Million Dollar Baby

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clinteastwoodmilliondollarbaby-imgE’ oramai da un po’ di tempo che il cinema di Clint Eastwood, dinamico e crudo nel segno di Don Siegel più che di Leone, non conosce leggerezza alcuna. Non conosce un’unità narrativa, anche quando attraversa il genere, che non sia prettamente il dramma e quindi l’intimismo con i suoi imprevedibili annessi e connessi. Ripetere un’altra grande prova dopo quell’intenso capolavoro che è stato Mystic River (2003), sembrava un impresa quanto mai proibitiva. E’ invece con questo suo nuovo Million Dollar Baby, l’oramai settantenne Clint, si rimette in discussione anche (di nuovo) come attore sottoponendosi a un tour de force che, siamo sicuri, non passerà inosservato agli attenti membri dell’Accademy. Sono suoi compagni di viaggio un disilluso Morgan Freeman, vero e proprio storyteller di questa avventura, dagli occhi stanchi e soprattutto una candida Hilary Swank, col faccino troppo pulito e delicato per scegliere la professione della boxe e incassare cazzotti. Siamo davanti a un film che sembra il lavoro di un indipendente. Per contenuti costi di realizzazione ed un uso sobrio della macchina da presa, senza effettacci o frenetico montaggio, ci verrebbe voglia di usare l’aggettivo “europeo”. Ma la nazione di contorno narrata in Million Dollar Baby altra non può essere che l’America, la terra che da un po’ di tempo a questa parte ha cessato di essere quella delle “possibilità”. Se il sogno era quello di riuscire, grazie al capitalismo, ad assicurare una possibile ricchezza e rivalsa sociale per tutti, non ve ne è traccia in questa pellicola. Dove l’emancipazione e il guadagno vengono raggiunti esclusivamente attraverso lo sport. E, dati i presupposti, sembra di assistere alla realtà romanzesca di certi indigenti immigrati o a quella “affamata” dei giovani dell’est Europa. Solo dopo aver imparato a prendere, e qualche volta a darle, su quel grande ring che è la vita Maggie (Swank), la protagonista del film, riuscirà ad accettarsi ed accettare il mondo in cui vive e dal quale sogna di evadere a suon di pugni.

Dimenticate il patetico dramma a buon mercato del primo Rocky (1976), le poetiche figure dei boxeur squattrinati ma affascinanti. Eastwood ha girato un film sulla rabbia della rivalsa sociale, una storia fatta di vecchi perdenti che paradossalmente sono i soli a offrire un’opportunità a chi faceva da sguattera in un caffè della provincia fin dalla prima adolescenza.
E Maggie, vittima di un mondo che non la vuole, che la vomita quotidianamente come un cibo indigesto, vede nel vecchio Frankie (Eastwood) e nel suo compare Dupris (Freeman) i suoi maestri e nella cadente palestra Hit Pit la sua scuola. La sua è una scalata fatta di piccoli passi, di entusiasmi e ferite, con l’unica certezza del non ritorno. Una affannosa corsa lontano dall’America per bene, dalle snervanti madri obese e dalle ambizioni sbagliate. Il finale sarà tremendamente caustico, per nulla poetico. Ed è ancora prettamente antihollywoodiano rinunciare ad un “happy end” risolutore. Il successo costa e niente è scontato davanti all’avversario come alla vita. Eppure dopo l’incontro per il titolo mondiale qualcosa di più resta nel cuore della ragazza da un milione di dollari. Un assoluta certezza più preziosa di qualsiasi metallo. Insomma, come dire: questo non sarà il migliore dei mondi possibili ma certamente è il più semplice.

Million Dollar Baby di Clint Eastwood vale da solo quanto, come minimo, la metà dei film prodotti quest’anno negli States. E’ un film che potrebbe essere da Oscar in quanto praticamente perfetto, ma che potrebbe anche rappresentare qualcosa di talmente alternativo da essere considerato troppo out da una nazione che mai come adesso ha voglia di autocelebrarsi. Che forse non ha bisogno di un cinema fatto di perdenti, ma delle storie di milionari texani alle prese con i sinuosi corpi delle star.
Staremo a vedere.

AS Chianese

Note Critiche di Maurizio Fantoni Minnella

Della triade dei “grandi vecchi” del cinema nordamericano, Robert AltmanMartin ScorseseClint Eastwood, quest’ultimo è certamente il più conservatore, almeno per ciò che riguarda la propria weltanshaung. Lo si evince anche dal suo ultimo film, questo Million dollar baby, già sufficientemente celebrato come un capolavoro, forse il definitivo di un autore prolifico che aspira con finta modestia ad un’idea di classicità non in contrasto con i dettami (si badi, non i cascami) dell’estetica hollywoodiana. Il “cavaliere pallido” o se si preferisce, il “texano dagli occhi di ghiaccio” diventa per l’occasione un allenatore di pugili suonati, in linea con la cosiddetta poetica degli sconfitti, di letteraria memoria, che il nostro pare abbia mutuato piuttosto dalla frequentazione del jazz e della cultura afroamericana più in generale, di cui “Bird” è il risultato più significativo.

In Million Dollar Baby, la scelta di introdurre l’elemento femminile (la ragazza che aspira a diventare un grande pugile, che già avemmo modo di apprezzare in “Boys don’t cry” di Peirce Kimberly (2000) in un contesto per eccellenza maschile come quello delle palestre di boxe, ha, come vedremo una funzione catartica più che di disturbo della tradizione. Infatti essa si rivela funzionale proprio nel meccanismo di identificazione padre-figlia messo in atto da Eastwood e dalla sua sceneggiatrice (il film si ispira a un personaggio veramente esistito), laddove viene a mancare, nello sviluppo del racconto, un vero rapporto paterno, al punto che tutto il film pare essere lo psicodramma di una perdita che si trasforma nella ricomposizione degli affetti attraverso il meccanismo “oggettivo” pugilistico, di cui il regista, in parte, contribuisce a rinnovare il sottogenere.
Ma se in Mystic River vi era fin troppo pudore nel non nominare né tantomeno mostrare l’odiosa pratica degli “orchi”, qui gli ammiccamenti, i moralismi tipicamente eastwoodiani e i consigli “paterni” si sprecano, in una prima parte costruita, pur nei suggestivi chiaroscuri della palestra e in alcuni divertenti bozzetti di contorno, all’insegna dell’ovvietà, ossia di una sia pure solida e solida riscrittura degli stereotipi e dell’ambiente pugilistico (cui si aggiunge il consueto rapporto tra il bianco e il nero, laddove il nero appunto si rivela portatore di una saggezza che al bianco è negata per antonomasia), che nemmeno la presenza femminile riesce pertanto a scalfire. Ma è nella seconda parte che lo sviluppo logico subisce un’interruzione: l’incidente quasi mortale della protagonista e il successivo breve calvario che si chiude con la morte dalla ragazza che chiede all’allenatore un atto d’amore e di pietà che chiamiamo eutanasia, ossia la morte dolce che allevia ogni pena e dolore.

Nell’epilogo, il pubblico abituato al classico happy and risolutore, si ritrova come spiazzato in un clima di disperata malinconia non priva, tuttavia, di speranza (la cifra anche stilisticamente più efficace del film), ancor più accentuata dalla sparizione del protagonista. Anche questa è un segno di un’impossibile espiazione?

Maurizio Fantoni Minnella


di Armando As Chianese
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