Les Misérables

Con che spirito si può affrontare la trasposizione cinematografica di quello che, a tutt’oggi, resta il musical più visto nella storia del genere? Difficile non esserne intimiditi, anche se – come nel caso dell’inglese Tom Hooper – si è reduci dall’Oscar per un film perfetto nella sua riuscita quale Il discorso del re e si ha a disposizione un budget faraonico nonché una parata di star tanto impressionante da non essere una sorpresa il fatto che due pezzi da novanta quali Helena Bonham-Carter e Sasha Baron Cohen vengano relegati in ruoli minori.

In effetti i “numeri” del musical originale non potevano non spaventare: scritto in due anni tra il 1978 e il 1980 dal musicista Claude-Michel Schönberg per la parte musicale e dal librettista Alain Boublil per i testi delle canzoni (in un adattamento alquanto disinvolto della monumentale opera-mondo pubblicata da Victor Hugo nel 1862), lo spettacolo ebbe un modesto impatto sulle scene parigine, dove forse il pubblico francese aveva un eccessivo attaccamento all’epopea nazional popolare del romanzo di Hugo per accettarne con troppa disinvoltura la conversione in operetta musicale.

A capirne il potenziale per palcoscenici non inquinati dalla passione letteraria fu invece il produttore londinese Cameron Mackintosh il quale ne volle allestire una versione inglese prodotta dalla Royal Shakespeare Company e diretta da Trevor Nunn e John Caird su testi di Herbert Kretzmer e con una radicale revisione sia del libretto che dell’orchestrazione delle molte canzoni che ne erano l’ossatura canora. Dopo aver debuttato nel West End l’8 ottobre del 1985, questa nuova versione ha ottenuto un successo senza precedenti approdando ben presto a Broadway dove è stata rappresentata ininterrottamente dal 1987 al 2003 e nuovamente dal 2006 al 2008, trasformandosi così nel musical di maggior successo di sempre insieme a The Phantom of the Opera. Il fenomeno però non si è limitato ai paesi di lingua inglese: in 21 anni di repliche in giro per il mondo, Les Misérables è stato infatti visto da più di 60 milioni di spettatori in 42 paesi diversi.

Non ostante questi numeri a dir poco impressionanti e destinati a intimorire qualunque uomo di cinema dotato di adeguato senno per capire quanto un’impresa simile avrebbe potuto essere un terno al lotto, il regista de Il discorso del re ha mantenuto fede a quanto dichiarato poco dopo aver vinto la statuetta per il magnifico ritratto di Giorgio VI, ovvero l’intenzione di trasporre sul grande schermo il musical dei musical, noncurante di doversi confrontare con un mezzo espressivo – quello dell’opera musicale trasferita sul grande schermo – del tutto diverso da quello abituale ma anche di dover fare delle scelte di natura tecnica ed estetica non facili da far digerire al pubblico di milioni di fan che avrebbero atteso l’uscita del film col fucile puntato.

Le scelte di Hooper sono state in effetti tanto coraggiose quanto l’idea di affrontare l’intera operazione della trasposizione cinematografica del musical. Deciso a offrire una lettura radicale dell’opera mantenendosi quanto più vicino al musical nella sua versione di Broadway (e insieme quanto più distante dal romanzo di Hugo), Hooper ha optato per eliminare quasi integralmente il parlato, scegliendo di adottare quel recitar cantando di settecentesca memoria che converte di conseguenza l’intero film in una sorta di ambiguo mix ai confini tra opera e operetta. L’effetto è però quasi straniante e richiede da parte del pubblico un sacrificio non indifferente: se infatti non si è dei fanatici del musical come genere, resistere a due ore e mezza di bombardamento canoro intervallato da buffi scambi di battute di servizio (“Chi è mai quella fanciulla?”) è impresa titanica ai confini del masochismo intellettuale. Anche perché nella versione distribuita alle nostre latitudini il sacrificio richiesto in sala è ancora più gravoso, visto che lo spettatore deve passare dalle lunghe parti cantate in inglese a quelle di raccordo dialogato in italiano. Il che contribuisce ad aggravare ancora di più l’effetto di straniamento che già è inevitabile non provare.

Ma Hooper, evidentemente non pago di questa scelta radicale di stampo vagamente retro e forse consapevole di aver schiacciato troppo il pedale in quella direzione, cerca invece di controbilanciare il tutto con alcune mosse stilistiche di contenimento volte a svecchiare la virata operistica e ad accogliere alcuni vezzi registici che nel cinema dei giorni nostri sembrano non dover mancare mai. Ecco quindi comparire inquadrature prese da angolazioni insolite e bizzarre accanto all’uso della steady cam, grandangoli immotivati insieme al ricorso alla grafica computerizzata (un esempio su tutti la sequenza di apertura con Jean Valjean immerso fino al collo nelle acque putride di un cantiere navale dove sta scontando parte della condanna ai lavori forzati). Il tutto in un tripudio del pout pourri stilistico che contribuisce a disorientare chiunque si predisponga con le migliori intenzioni possibili a reggere e metabolizzare lo tsunami canoro che lo schermo rigurgita per una durata francamente non giustificata.

Se poi la parte relativa al cantato vero e proprio fosse qualcosa di degno di passare agli annali o rimanesse per lo meno impresso nella memoria come è successo in passato con musical entrati nella storia del cinema (si vedano, a titolo di esempio del tutto casuale e come rappresentanza di epoche diversissime, opere del calibro di West Side Story, Grease e Chicago), il gioco varrebbe la candela e si avrebbero motivate ragioni per giustificare il budget faraonico impiegato nonché la parata di star internazionali chiamate a raccolta per creare quello che, per lo meno nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere il musical dei musical di sempre allo stesso modo in cui l’originale successo planetario lo era stato per le scene teatrali. Ma le cose non stanno affatto così. Se si eccettua forse il potente introibo corale di “Look Up” con cui il film si apre introducendo lo spettatore ai due personaggi chiave dell’intero film (Jean Valjean nelle sue vesti di forzato e l’aguzzino Javert destinato a perseguitarlo anche quando diventerà un uomo libero e un rispettato benefattore), di due ore e passa di canzoni non ce n’è una che rimanga impressa nella memoria o che per lo meno induca a essere canticchiata quando si esce dalla sala storditi dal calvario canoro cui si è stati sottoposti. E in questo certo non aiuta il fatto che Hooper abbia scelto di affidare l’ingrato compito di cantare ad attori che, pur se volenterosi e anche in parte dotati dal punto di vista vocale (tra i protagonisti è Hugh Jackman-Jean Valjean quello che sembra più in palla), sono evidentemente a disagio con una forma espressiva che non fa parte delle loro corde più intime.

Trama

Nella Francia di metà XIX secolo in sussulto per i fremiti di rivolta del dopo Rivoluzione  la vita di un ex forzato perseguitato dal suo secondino di un tempo viene sconvolta per la seconda volta dall’incontro con la figlia di un’operaia.


di Redazione
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