L’equilibrio

Dopo la parentesi «fuori sede» de La prima luce (nel quale si affrontava un tema comunque di grande spessore e attualità quale quello delle coppie miste tra italiani e immigrati e le inevitabili frizioni culturali tra mondi ancora pressoché incompatibili), con L’equilibrio Vincenzo Marra torna a immergere il suo bisturi impietoso nei mali congeniti di quella Campania che, oltre a essere la sua terra natale, è stata fin dagli esordi folgoranti di Tornando a  casa e del documentario E.A.M. – Estranei alla massa del 2001 il palcoscenico privilegiato del suo cinema di rigoroso impegno civile e di denuncia delle cancrene croniche che ne rattrappiscono la vita.

Per farlo sceglie una prospettiva del tutto originale raccontandoci la parabola di sconfitta eroica di un sacerdote campano che, metà Christus patiens avviato al destino della croce e metà commovente Donchisciotte chiamato ad affrontare da solo mulini a vento troppo potenti per le sue forze, si impegna in una guerra persa in partenza contro il malaffare diffuso che avvelena dalle radici uno dei tanti sobborghi dell’hinterland napoletano immerso in quella cintura di morte annunciata che è la cosiddetta terra dei fuochi.

Accortosi che i sentimenti per una operatrice umanitaria del centro di accoglienza prospiciente alla parrocchia romana di cui è responsabile stanno per mettere a rischio la sua fede, Don Giuseppe (nome omen del padre di Gesù scelto non a caso per indicare fin da subito un rapporto diretto tra diversi percorsi di sofferenza) chiede e ottiene di essere trasferito nella sua terra natale in un quartiere difficile con altissima penetrazione camorristica condita da dosi da cavallo di omertà diffusa a ogni livello. Ivi comprese le forze di Polizia.

Ad accoglierlo è il collega Don Antonio che, forte di un’eloquenza demagogica da consumato retore con cui affascina i fedeli concionandoli prima di ogni messa domenicale, ha resistito quindici anni in quell’inferno di degrado umano e ambientale nascondendo dietro la nobile facciata della crociata contro i veleni che ammorbano il sottosuolo e uccidono la gente con tassi altissimi di morti per cancro quello che in realtà è il più classico degli atteggiamenti omertosi verso i capibastone che dominano nel quartiere.

Don Giuseppe è fatto di tutt’altra pasta. Accortosi ben presto che il puntare il dito contro i veleni del sottosuolo e quanti ce li hanno interrati è ormai sfondare una porta spalancata che non porta da nessuna parte (causa l’assenza cronica dello Stato, come furbescamente rammenta Don Antonio nelle sue prediche-comizi), Don Stefano entra a gamba tesa in un mondo da sempre in equilibrio tra l’arroganza incontrastata del crimine e la sua accettazione omertosa da parte della comunità che ne è vittima.

Ma così facendo pesta i piedi a chi è abituato a parroci come il suo predecessore e non a preti-coraggio pronti a mettere la fede al servizio del bene comune lottando contro ingiustizie troppo enormi per essere tollerate. Dopo aver ricevuto una serie di sinistri avvertimenti a cambiare rotta (prima due sgherri del boss locale lo menano di santa ragione e poi arrivano quasi a impiccarlo nel suo appartamento) e tentato invano di proteggere una bambina dagli abusi di un padre violento, a lasciarlo solo non sono unicamente i parrocchiani spaventati dalle conseguenze esiziali della sua crociata giustizialista, ma anche i superiori della Curia vaticana, a loro volta implicitamente conniventi.

Emarginato all’interno della parrocchia stessa (dove la suora che lo dovrebbe assistere non fa che impartirgli lezioni su come si dovrebbe comportare per evitare problemi), Don Stefano finisce col piegarsi di fronte all’ineluttabile. E cioè che quella parte di mondo non è più curabile, incancrenita com’è da troppi anni di accettazione passiva dello stato di fatto (l’imperare onnivoro della camorra e dei suoi derivati in minore), lasciando spazio soltanto a destini di sconfitta per quanti cercano di opporvisi arrivando a mettere a rischio la propria vita.

Il cinema di Vincenzo Marra (arrivato al suo settimo lungometraggio di finzione cui vanno aggiunti due incisivi documentari) è quello che si vorrebbe facesse la settima arte quando si impegna a raccontare le storture del mondo denunciandone l’esistenza per risvegliare le coscienze non solo di chi ne è vittima passiva, ma anche di quanti potrebbero fare qualcosa per intervenire sul degrado in atto. Anche se il messaggio veicolato, come nel caso de L’equilibrio, è l’ammissione di una sconfitta sul campo unita alla consapevolezza che a volte le radici del Male non si possono estirpare perché sono ormai penetrate ovunque.

E Marra dimostra di essere fedele a questa idea di cinema civile facendo ricorso ai mezzi che sono ormai la cifra della sua poetica fin dagli esordi: e cioè sceneggiature asciutte fino all’osso nelle quali si parla il necessario lasciando che la sintassi del piano-sequenza faccia il resto nel raccontare vicende che sono quasi sempre risentiti atti d’accusa contro bubboni più o meno purulenti della sua terra, quella Campania umiliata e offesa che non smette mai di essere al centro del suo occhio di vigile indagatore.

Questo settimo film di un ex-giovane promessa del cinema nostrano ormai diventato una realtà certa su cui puntare potrebbe all’apparenza sembrare soltanto la storia di un sacerdote coraggioso che cerca invano di ridare dignità a una comunità appestata dal crimine e senza alcuna speranza di futuri possibili. In realtà tra le pieghe della sceneggiatura si annidano ben altri spunti di denuncia seminati con sagacia drammaturgica come costanti allarmi a qualcosa di più alto e minaccioso di quanto non sia la semplice parabola di sconfitta annunciata della figura Christi del protagonista.

Mentre in TV spadroneggiano serie patinate che stanno rischiando sempre di più di imporre un’immagine glamour della versione campana di criminalità organizzata, col suo film Marra ricorda sottovoce che in quella parte di mondo l’assenza dello Stato e le connivenze dell’establishment in senso lato (ivi inclusa la Chiesa romana intesa come entità politica avulsa dalla sua missione apostolica) stanno contribuendo in maniera involontariamente costruttiva alla cronicizzazione di fenomeni ormai non più fronteggiabili. Con quella forma malata e distorta di equilibrio tra l’accettazione di un fenomeno e la sua rimozione di massa che è la sola ricetta possibile per la sopravvivenza.

L’equilibrio del titolo è di fatto lo stato interiore cui il protagonista non riesce ad approdare nel suo percorso di discesa agli inferi senza resurrezione finale. E non si tratta di certo di un equilibrio rasserenante che possa portare alla pace interiore. Tutt’altro. Come gli dimostra in più di un’occasione il predecessore Don Antonio col proprio ambiguo barcamenarsi tra presunte denunce di fenomeni di cui ormai contano solo le conseguenze e una cecità indotta verso la quotidianità del crimine, il solo modo per sopravvivere in quel mondo è trovare un compromesso. Vivi (fingendo di non vedere) e lascia morire (di cancro per i veleni sotterrati tutt’intorno).

Trama

Sacerdote campano con un passato da missionario in Africa, Don Giuseppe viene trasferito su richiesta dalla piccola parrocchia romana dove opera in un comune della sua terra. Lì prende il posto di Don Antonio, prete molto carismatico e popolare tra i fedeli perché impegnato a combattere in prima persona il malaffare che prospera nella zona intossicandola con sotterramenti illeciti di rifiuti tossici. In poco tempo Don Giuseppe scoprirà suo malgrado l’orrore di un universo in cui l’emergenza del sottosuolo infetto è solo la punta di un iceberg fatto di realtà troppo scomode per non mettere a dura prova la forza della fede e la tenacia e il coraggio con cui il sacerdote cerca donchisciottescamente di combatterle.


di Guido Reverdito
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