Le ultime cose. Dalla SIC alle sale cinematografiche.

Irene Dionisio ha studiato filosofia estetica e sociale, poi cinema e altri linguaggi visuali con Daniele Segre, Marco Bellocchio, Alina Marazzi. Etica ed estetica, stile e contenuto, come ci aveva insegnato, tra gli altri, Pasolini, sono inscindibili, ma non sempre accade nella pratica. Ma nel suo caso sì. Torinese, a dispetto della ancora giovane età (compirà a giorni 30 anni) la Dionisio ha già dimostrato notevole maturità espressiva nei suoi primi due lungometraggi documentari, premiati in vari festival. Se La fabbrica è piena. Tragicomedìa in 8 atti (2011) fotografava la “dismissione” degli stabilimenti Fiat Grandi Motori, dando la parola a un ex lavoratore e a due dropout rumeni che vi avevano  trovato rifugio, Sponde. Nel sicuro sole del Nord mescolava quotidiano e poesia, rintracciando nelle odierne tragedie dei migranti il segno di riti arcaici – quale il dovere di seppellire i morti – e, nelle storie individuali, i fili di una umana, universale dignità.

Anche ne Le ultime cose – il suo esordio nel lungometraggio di finzione, scelto come film italiano in concorso alla 31ma Settimana Internazionale della Critica – lo sguardo documentaristico dell’autrice è presente sia nel rapporto con i luoghi e con il tema stesso della narrazione – storie di ordinaria, precaria umanità presso il Banco dei pegni di Torino – che nella marcata tipizzazione dei personaggi “di finzione”, metafore viventi della deriva sin qui inarrestabile del nostro paese, sempre più prigioniero dei debiti (secondo le ultime statistiche circa 35.000 euro a persona) e ossessionato dal denaro, ovvero dalla sua mancanza. Non a caso la Dionisio filma sin dall’incipit del film il Banco dei Pegni come una prigione, fatta di sbarre, grate, chiavistelli manovrati dai custodi ripresi in semi-soggettiva (inquadratura e marca stilistica che torna più volte durante il film), per  guardare con gli occhi dei personaggi, ma senza mai trascurare il contesto; oppure ricorre a stranianti inserti in bianco e nero delle riprese dall’alto delle telecamere a circuito chiuso. Ma i banchi sono anche come delle Chiese (si chiamavano, e ancora li chiamano, “Monti di Pietà”),  i loro saloni sono ampie navate, dove le persone stanno in trepida attesa del turno,  stringendo come reliquie i loro preziosi oggetti (e siamo sicuri che la Dionisio conosce il racconto della Ortese “Oro a Forcella”,  da “Il mare non bagna Napoli”). Di sicuro,  sono luoghi ad elevato  controllo sociale: e tra i momenti forse più felici del film vi sono quelli in cui le persone raccontano ai periti estimatori (quasi fossero dei confessori laici) le vicissitudini che le hanno spinte sin là; ma anche le carrellate sulle facce, comuni e al tempo stesso straordinarie,  nella loro diversità di status sociale, portamento, colore della pelle.

Da  questo  limbo o “purgatorio” del debito e dei debitori (che sicuramente non hanno o non vogliono avere accesso all’inferno legale del sistema bancario, ma rischiano di finire nelle fiamme delle mafie usuraie, i cui ricettatori stazionano come avvoltoi e cani da caccia fuori dall’edificio), la Dionisio sceglie di raccontarci tre storie, ben avvolte nel fluido montaggio di Aline Hervé e nella fotografia grigia e come autunnale di Caroline Champetier: l’apprendistato del giovane perito neo-assunto (Fabrizio Falco) alle prese con i comportamenti melliflui, ambigui, in realtà criminali (con il beneplacito dei  dirigenti) del perito anziano (Roberto De Francesco, impeccabile); l’incontro tra il giovane e una trans che cerca di vendere una pelliccia (una intensa Christina Rosamilia),  la sola storia dove -pur avendo creato le giuste atmosfere- lo sviluppo narrativo ci ha meno convinti; le vicende di un facchino in pensione che per andare avanti (e pagare un impianto auricolare al nipotino) chiede aiuto a un parente, ma finirà per questo in un giro sbagliato (bravissimi, come sempre, Alfonso Santagata e Salvatore Cantalupo).

L’occhio della Dionisio è quasi sempre pieno di empatia per le miserie, le virtù,  e anche i vizi dei suoi personaggi. Si avvertono, anche negli insistiti pedinamenti, echi della grande scuola neorealista italiana, ma il suo è uno sguardo autonomo e originale, e profondamente contemporaneo, che pensiamo avrà ancora molto da raccontarci in futuro (intanto il film, sarà distribuito, speriamo presto, da Cinecittà Luce).

Parlare della “maledizione del denaro”, che accomuna oggi tutte le classi  sociali, vuol dire farci opportunamente riflettere sulle derive attuali del capitalismo e sulle sue continue promesse di “false felicità”. Irene Dionisio non era nata, ma nel 1983, un certo Robert Bresson, ormai ottuagenario, ci lasciava con L’Argent il suo testamento filmico e morale. Per una felice coincidenza, la Mostra lo ripropone proprio oggi nella versione restaurata (per la sezione “Venezia Classici”).

TRAMA

A Torino una moltitudine dolceamara porta in pegno i propri averi, in attesa del riscatto o dell’asta finale. Tra i mille volti che raccontano l’inventario umano della crisi, tre storie si intrecciano inconsapevolmente sulla sottile linea del debito morale. Sandra, giovane trans, per sfuggire al passato porta in vendita la sua pelliccia. Il suo sguardo incrocerà quello di Stefano, novellino appena entrato al banco, spingendola verso una tenera ossessione. Michele, ex facchino in pensione, chiede un prestito ad un parente, ma questo si rivelerà fatalmente la persona sbagliata.


di Redazione
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