La bocca del lupo

Documentario? Docu-fiction? Opera basata su un impianto lirico? Riflessione sul concetto di tempo? Appunti sulla natura delle immagini e sulla possibilità delle arti visuali di raccontare storie?
Tutte queste definizioni potrebbero essere applicabili al film di Pietro Marcello intitolato La bocca del lupo.
È raro vedere nel panorama italiano un’opera così “altra” e fuori dagli schemi. Si tratta in primo luogo di una riflessione più filosofica che banalmente visuale sul ruolo della memoria, una riflessione che riguarda la rielaborazione espressiva di vicende vissute nella realtà odierna.  Due soggetti, due individui, che la società ha spinto ai margini si incontrano, si amano e decidono di condividere il loro destino insieme, fuori dal contesto delle codificazioni borghesi. Sui loro volti sono scolpite esperienze non solo individuali, si rintracciano le storie di innumerevoli persone che hanno affrontato nel corso del tempo le questioni della ricerca di integrazione sociale, della vita basata esclusivamente su sentimenti intimamente provati, della sofferenza, del baratro e della possibile rinascita.
La vicenda umana dei protagonisti non è raccontata con un tono realistico, quanto piuttosto all’interno di coordinate poetiche decisamente libere. Sguardi nel silenzio, luoghi del nulla metropolitano, e poi voci fuori campo che comunicano sensazioni interiori, paure, dolori, gioie ma anche piccole esperienze esistenziali.

Pietro Marcello ha scelto, per comporre questo affresco antico in cui sono miscelate esperienze individuali e condivisione di una memoria profonda, uno stile apparentemente sciatto, sporco, poco gradevole a livello visivo. In realtà, puntando sull’elaborazione di un’immagine non nitida e sgranata, anche dal punto di vista cromatico, ha consentito allo spettatore di trovare il suo spazio di riflessione e di contatto con la storia narrata.  Fa da palcoscenico ideale a questa vicenda così umana, una Genova misteriosa ma paradossalmente accogliente, una città fatta di oscurità e vicoli, di zone portuali che parlano più dell’assenza dell’umanità che della sua presenza, e di personaggi poeticamente veri quanto lontani da ogni possibile catalogazione. D’altra parte la memoria non è certo materia catalogabile, in quanto ha a che fare con l’evocazione più che con la ricostruzione codificata di fatti. Così, Pietro Marcello ha tentato di mescolare, forse in modo un po’ caotico ma suggestivo, la forza dei ricordi generati dai racconti del padre (un marittimo meridionale che a Genova si imbarcava) e un presente costituito da diseredati ed emarginati che non hanno perso la loro dignità umana, una dignità che resiste al’attacco di ogni inutile e sterile forma di perbenismo.


di Maurizio G. De Bonis
Condividi

di Maurizio G. De Bonis
Condividi