Io non ho paura

io non ho paura

io non ho pauraGabriele Salvatores ritorna al tipo di cinema che ha segnato la prima parte, quella decisamente più interessante, della sua carriera. Lo fa con un film, Io non ho paura, che nasce con una solida base letteraria, il bel libro di Niccolò Ammaniti.

La storia è ambientata nell’Italia meridionale nell’estate del 1978, la più calda del secolo. Nel piccolo borgo Acque Traverse un bimbo scopre casualmente una buca nel terreno in cui è rinchiuso un ragazzino della sua stessa età, rapito a Milano e custodito dalla sua famiglia.
Fra i due bambini nasce un sentimento di naturale solidarietà, al punto che il campagnolo riuscirà a salvare la vita al prigioniero, quando i rapitori, vista frustrata la speranza di ottenete un riscatto, decidono di ucciderlo.

Il film è teso, ottimamente costruito e, dato particolarmente importante, mette in campo un rapporto fra regista e natura quale raramente si è visto nel nostro cinema. Qualche recensore ha ironizzato sulle bellissime immagini di ampi campi di grano e sui cieli tersi. In realtà questa scelta ambientale rimanda all’amore per i paesaggio che segna il lavoro di grandi registi come Akira Kurosawa o Abbas Kiarostami. E’ un ritorno al cinema classico, dopo le prove fantastico – surreali abbastanza deludenti di Amnèsia, Denti e Nirvana. Una strada che riprende quella di Mediterraneo e in cui il regista sa dare il meglio di se. La descrizione delle psicologie, non solo di quelle dei piccoli interpreti, si salda a questa visione ammirata ed estatica della natura, ribadendo la medesima linea stilistica che segnava il legane fra i militari italiani e lo splendido scenario dell’isoletta greca. Un film dall’andamento lirico e riflessivo in cui il tempo della narrazione è quello giusto e necessario.

Umberto Rossi

Note critiche di Daniele Guastella

“Inseguire il grano giallo, alto”: da questa frase del romanzo Io non ho paura di Niccolò Ammaniti, da cui è stato tratto il film, Gabriele Salvatores dice di essere partito per questo suo ultimo lavoro. Una frase-immagine di straordinaria forza visiva che contiene in sé sia il tono generale del film, il giallo del grano accentuato ed esasperato fotograficamente, che il movimento paradossale dell’inseguimento di quest’elemento immobile, sia infine il riferimento all’altezza: il grano alto, estivo, è una zona liminale tra la superficie luminosa e solare di Michele e quella profonda, oscura e silenziosa del buco-pancia della terra in cui è rinchiuso Mattia; al suo interno si registrano sparizioni ed inquietanti scoperte. Ma l’inseguimento del grano, quello che sembra essere il gioco preferito dei bambini, si trasforma presto per Michele in una disperata fuga attraverso una lunga galleria di mostri, il padre-orco, l’uomo-nero, il teschio (è l’esplicito soprannome di un componente della banda di sequestratori). Dal gioco alla fuga, dalla fuga all’esorcismo: io-non-ho-paura, per ritrovarsi alla fine diverso, al termine di una stagione della vita, con alle spalle il mondo dell’infanzia, simbolico e fantastico, al termine di un ciclo, quando il grano viene mietuto.

In questo film Salvatores riesce nel suo intento di operare una sintesi filmica della realtà che superi “sia il naturalismo che il realismo esasperato”, innanziutto montando la m.d.p. “negli occhi di un bambino” ed inquadrando la realtà da quell’altezza, un metro e mezzo circa, facendo così “un thriller, un noir visto attraverso i suoi occhi: un filtro non realistico”, ma nello stesso tempo raccontando una storia drammaticamente reale con una ripresa fluida e scorrevole, soprattutto grazie all’uso della steady-cam. Egli cioè riesce, a partire da questi assunti di base, a mantenervisi fedele con i mezzi propri del cinema e restituire così una dimensione di realismo interno, profonda e verosimile, in un contesto in cui agiscono mille fratture e contraddizioni.

La sintesi tra la superficie e il fondo, la distesa e il buco, la tenebra e la luce, il particolare e il totale, in cui si intrecciano molti, perturbanti doppi, all’interno dello stesso personaggio: il padre, affettuoso col figlio, crudele col prigioniero, o tra personaggi diversi ma “uguali”: il meridionale, dalla carnagione scura e figlio di contadini, Michele, abitante della superficie, e il settentrionale, biondo, di ricca famiglia, Mattia, che abita la pancia della terra. Più in generale a funzionare è la sintesi operata tra una sceneggiatura di ferro e le capacità visionarie che Salvatores sembra oramai aver pienamente acquisito a partire almeno dal mitico e solare Mediterraneo, passando per la virtualità filosofica di Nirvana, per arrivare al “viaggio psicadelico” di Denti. Insieme all’infanzia perduta, a scomparire è anche tutto un mondo fatto di simboli concreti e fantastici, la casa abbandonata e diroccata, la ricca fauna del luogo: gufi, civette, falchi, serpenti, ragni, la filastrocca degli animali notturni sussurrata da Michele e più in generale tutta l’interpretazione e la riscrittura della realtà operata da lui o da Mattia, il bambino sequestrato, per reagire ad una dimensione drammatica del reale che non riescono a comprendere.

Daniele Guastella


di Umberto Rossi
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