Il sindaco del rione Sanità

Intrecciando passato e presente, il testo teatrale Il sindaco del rione Sanità e la contemporaneità, Mario Martone rivela le contraddizioni del Paese.

Napoli come metafora. Intrecciando passato e presente, il testo teatrale Il sindaco del rione Sanità (scritto da Eduardo del 1960) e la contemporaneità, e la forza di diversi linguaggi artistici, Mario Martone rivela ancora una volta le contraddizioni di un paese, dominato dalla mafia e dall’ingiustizia.

Per dirla con Franco Maresco, ‘la mafia non è più quella di una volta’, anche nella sua versione camorristica. Ce lo ricorda Mario Martone, che, di nuovo in concorso a Venezia, traspone sul grande schermo, ambientandolo ai giorni nostri, quel Il sindaco del rione Sanità che nel 2017 aveva già portato in teatro, quasi con identico cast, affronta per la prima volta, nella sua ricca carriera multidisciplinare, un’opera di Eduardo. Anche l’Italia non è più quella di una volta. Nel 1960, quasi sessanta anni fa (gli anni che Martone compirà il prossimo novembre), il genio di Eduardo aveva concepito questo testo provocatorio e ai tempi poco compreso, nel segno di una duplice speranza: quella di un boom e di un possibile sviluppo economico che avrebbero finalmente potuto rappresentare, dopo i tempi delle ‘mani sulla città’ anche una spinta verso la giustizia e il rispetto della legalità (anni dopo avrebbe spiegato che il ‘sindaco’ Antonio Barracano più che un ‘padrino’ era per lui qualcuno che provava a cambiare un copione antico e fatale). Sappiamo che non è andata così, e non solo per il Sud. E se è vero, da una parte, che ‘Niente e’ nuovo’, come dice il rap di Ralph P che apre il film, tantissimo altro è cambiato, e purtroppo in peggio. Il ‘sindaco’ è ora un giovane boss, pieno di figli e di ‘famigli’, la sua villa alle pendici del vulcano domina sempre la città (come nel testo di Eduardo), ma adesso è un bunker (costruito ‘in economia’, dunque regolarmente abusivo) che ostenta oro, mobili kitsch, videocamere di sorveglianza, telecomandi. Le mafie, nazionali e globali, non solo continuano a dominare questo Paese, sorreggendone l’economia legale e condizionando relazioni umane e pratiche amministrative, ma hanno invaso ora, in maniera in qualche modo tranquillizzante, anche l’immaginario collettivo, che (dalle ‘Piovre’ a ‘Il capo dei capi’ sino a Gomorra) è oggi sempre più televisivo (oltre che, per quanto riguarda le generazioni più giovani, quello della rete). Bisogna allora ripartire dalla realtà, dai luoghi e dai corpi reali, quindi in primo luogo dal teatro, arte – come la danza e il ‘teatro-danza’ (pensando a Pina Bautsch che ci manca da oltre 10 anni) – più di altre difficile da controllare e dunque potenzialmente ‘rivoluzionaria’ (lo sapevano gli aderenti delle comuni artistiche di inizio ‘900 evocate di recente dal regista in Capri-Revolution). Martone lo sa, sin da quando, giovanissimo, nella Napoli dei quartieri spagnoli a fine anni 70’, era stato uno dei protagonisti – insieme a Neiwiller, Moscato e altri – dell’avanguardia teatrale napoletana e italiana, quella che, insieme al teatro di Carmelo Bene e Leo De Berardinis, ha saputo attraversare e unire tanti linguaggi artisticii. Non a caso il progetto del ‘Sindaco’ nasce nella periferia orientale della città, con la nuova generazione di teatranti del NEST che, grazie anche al lavoro di Luca De Filippo, hanno trasformato una palestra in una sala teatrale, un gesto politico di contrasto all’emarginazione nelle periferie abbandonate dallo Stato prima e poi anche dalla politica e dai sindacati.

Ma se la matrice teatrale resta fondante, pensiamo sia un peccato che il film venga distribuito in sala (da Nexo Digital) solo per tre giorni (per giunta feriali, dal 30 settembre al 2 ottobre). Perché è proprio qui sul grande schermo, grazie alla forza propria del linguaggio cinematografico, che Martone riesce, a nostro avviso, a vincere a pieno la sua sfida, rispetto anche ai vincoli in termini di spazio, scenico e fisico (e dunque di pubblico raggiungibile) del teatro, e a mettere in discussione (o almeno a scalfire), quell’immaginario ‘gomorriano’, a indicare una possibile strada alternativa. Parlando un ‘linguaggio’ su cui anche i giovani potrebbero sintonizzarsi.
Fedele al suo approccio e alla sua pratica artistica, Martone, già nell’adattamento teatrale, nell’ ‘attualizzare’ il testo eduardiano non ha pensato infatti solo ai caratteri dei personaggi, alle scene o ai costumi, ma ha lavorato molto sulla parola, sul ritmo dell’azione, sulla musica. Tutte cose che il cinema sa come amplificare. E dove lo spettatore può ‘immergersi’. Come racconta il rapper Ralph P, la colonna sonora era nata, durante la fase di lettura del testo, come lavoro corale fatto insieme al regista. E la musica rap nel film innerva ancora di più il racconto, ne scandisce le fasi salienti, o fa da contraltare alla canzone classica o al ‘neo-melodico’ che pure a tratti affiora. La parola e i dialoghi, pur nella sostanziale fedeltà all’originale, acquistano poi un altro passo e spessore, contemporanei, nel ritmo del montaggio nervoso e preciso di Jacopo Quadri. Questo avviene nei numerosi faccia a faccia in piano ravvicinato tra i bravissimi protagonisti, in particolare quelli tra il boss Antonio Barracano e l’onesto fornaio ma cattivo padre, Arturo Santaniello, (rispettivamente Francesco Di Leva, che guida il gruppo del NEST, e Massimiliano Gallo) o quelli tra Barracano e il dottor Della Ragione, suo medico e braccio destro tuttofare, ma anche ‘antagonista morale’ (qua, unica significativa differenza rispetto alla scena, impersonato magnificamente da Roberto De Francesco, attore che torna ad avere una parte di peso nel cinema martoniano). Ma anche nei tanti momenti in cui il cast appare come un coro, un corpo collettivo che porta per intero il peso dell’azione e dei dilemmi morali che la caratterizzano. Del resto, anche i silenzi sono parola, e giocano un ruolo importante: di paura e ‘soggezione’ (come quello che accoglie il boss, appena sveglio, nelle prime scene del film) ma anche del tormento interiore dei tanti personaggi maschili (le donne sono figure apparentemente di secondo piano, ma portatrici comunque di una visione più aperta e flessibile), tutti bloccati dalle proprie emozioni negative, paure e rancori, dalle logiche – culturali, familiari, socio-economiche – di dominio e sottomissione, e da quell’ ‘aut aut’, ‘o me o lui’, uccidere o essere uccisi. Che poi è la maledizione originaria anche di Barracano, da cui cercherà di liberare se stesso e il mondo che lo circonda, sino al sacrificio personale.
Al cinema poi, Martone può con ancora più efficacia lavorare nel contrasto tra interni ed esterni, sia rispetto al set della villa bunker del boss, con i suo giardini esterni, e alla città che si stende ai suoi piedi, come un’unico e indistinto corpo sociale, contaminato dall’ingiustizia, che forse lui stesso non può più controllare, nemmeno nel suo ‘rione’.

Nell’ultima parte, quando Barracano, avviandosi verso il tragico epilogo, scende in città, percorrendo i vicoli fatiscenti della Sanità o salendo le scale buie e scrostate del palazzo, già nobiliare, della sua casa di città , lo accoglie una Napoli grigia, piovosa, claustrofobica, colpita a morte e agonizzante come lui. Non c’è più la luce del cielo o del mare (che del resto ‘non bagna Napoli’ come ricordava la Ortese), né tantomeno nessun metaforica ‘cardillo’ a indicare una speranza. Solo l’assunzione di responsabilità da parte degli uomini (‘l’uomo è uomo quando è capace di fare marcia indietro’ aveva detto Barracano, e con lui Eduardo, al figlio del fornaio) può invertire e trasformare il destino. Il nostro presente è frutto di una storia antica (delle speranze tradite del Risorgimento, dell’avidità delle classi dominanti, della repressione delle utopie artistiche e delle diversità, sino alle guerre e ai totalitarismi, vissuti e ancora, oggi incombenti…). ‘Noi credevamo’. Poi abbiamo smesso di credere. Ma se oggi, in una nazione nata dalla lotta per la libertà e retta ancora da istituzioni formalmente democratiche non vogliamo rassegnarci a credere solo al Fato (o a una religione che è solo icone e oscurantismo), dovremo tornare ad agire, e a mettere in discussione le nostre certezze. Le ‘lezioni di Storia’ di Mario Martone possono esserci d’aiuto.


di Sergio Di Giorgi
Condividi

di Sergio Di Giorgi
Condividi