Il Signor Rotpeter, un mediometraggio di Antonietta De Lillo

Pareva di essere in una specie di parco naturale, da quanti animali si sono incontrati nei film proiettati durante la settantaquattresima edizione del Festival del Cinema di Venezia: tornano in mente, per limitarsi al Concorso, il mostruoso lucertolone di The Shape of Water (del vincitore Guillermo Del Toro); il cavallo di Lean on Pete (Andrew Haigh); le pecore di Mektoub, my love: canto uno (Abdellatif Kechiche); il cammello di Foxtrot (Samuel Maoz). Ogni volta, anche se con soluzioni formali assai diverse o con esiti altrettanto vari, la presenza animale sembra evocare un mondo misterioso, al di fuori dell’umano, e portatore di un’alterità che spesso rimane indecifrabile. Venezia 74, guardata da questa galleria di strane creature, ci ha continuamente parlato di un cinema che cerca nuovi sguardi, anche nuove possibilità, magari extraumane, di rappresentare il mondo; o di sopravvivere ad esso.

Il punto più originale e inclassificabile di questo spostamento di prospettive è quello raggiunto dall’opera fuori concorso presentata da Antonietta De Lillo: un film in cui l’animale diventa addirittura protagonista. Si tratta di una scimmia: proprio l’essere che più di tutti, nel cinema, ha interpretato la controparte dell’umano.

Il Signor Rotpeter dialoga con il progetto in corso di un terzo “film partecipato” e intitolato L’uomo e la bestia (gli altri due lavori sono Il pranzo di Natale, del 2011, e Oggi insieme, domani anche, del 2015); è un testo ibrido anche nella sua durata (trentasette minuti) e rielabora e contamina una performance teatrale recentemente allestita da Marina Confalone, e riadattata da un racconto di Kafka Una relazione per un’accademia (1917). Il testo narra un destino opposto a quello del racconto kafkiano molto più famoso, La metamorfosi, dove un uomo si svegliava trasformato in animale; in questo caso, infatti, la storia messa in scena è quella di una bestia, una scimmia, che ha fatto il percorso inverso, trasformandosi in umano. Diventato ormai una celebrità, l’illustre Rotpeter ci offre una lezione di vita raccontandoci la sua mutazione; per esempio, di come, dopo essere stato catturato nella giungla, sia sopravvissuto alla morte perché piano piano ha capito che imitare coloro che lo avevano imprigionato poteva essere l’unica via di uscita: dalla gabbia e dalla sottomissione.

Rotpeter non è solo un trattamento di testi preesistenti, perché De Lillo si è reimpossessata del soggetto (riscritto con Marcello Garofalo) allestendo una  drammaturgia che rompe l’unità di luogo e di azione originarie. Usando l’espediente di un’intervista giornalistica a Rotpeter gli spazi scenici principali, infatti, diventano tre: quello interno e esterno della casa del protagonista; quello della città di Napoli, che Rotpeter percorre, passeggiando sul lungomare che porta verso il Borgo Marinaro, o fermandosi nel Bosco di Capodimonte; e quello, già previsto dal testo originale, di un’aula universitaria. Intanto che questo stranissimo uomoscimmia, interpretato per colmo di istrionismo da una donna, ci racconta ininterrottamente la sua sconcertante storia, la sua vicenda bestiale assomiglia sempre di più a una sorta di paradossale ritratto della contemporaneità. Una contemporaneità di cui l’animale diventa la maschera perturbante: quella che meglio sa esprimere un presente addomesticato, ma che rimane sfuggente a sé stesso, inconciliato con una memoria che si cerca di rimuovere ma che ritorna e ci guarda. Persistenza e mutazione, del resto, sono due movimenti che riescono a essere compresenti, anche formalmente, grazie agli sfasamenti spaziali (metamorfosi, pure essi) costruiti dalla regia, che ci fa assistere a passaggi di set mentre il discorso del personaggio va avanti senza stacchi. Con il risultato di uno spaesamento spettatoriale che aumenta l’effetto di stranezza, e la sensazione di trovarsi in un racconto a chiave ma senza serratura.

Attraverso Rotpeter, natura e civiltà si guardano e si interpellano, moltiplicando il gioco di rispecchiamenti attraverso la trovata scenica dell’intervista, che contiene tutto il racconto e assimila l’occhio dello spettatore all’occhio della telecamera, che riprende il protagonista nell’atto di rispondere a una voce che resta sempre fuori campo. Così Rotpeter, creatura mutante, resta fermo e distante davanti a noi. Lontano e vicino, così identico e così differente. Risponde senza guardarci, ora ascoltandoci, ora ignorandoci; diventando, nel medesimo tempo, tanto ciò che è altro e resta estraneo, quanto la bestia dentro di noi che ci interroga.

TRAMA

Il Signor Rotpeter, una scimmia diventata uomo, racconta la sua vicenda mentre risponde a un’intervista e tiene una lezione universitaria.


di Daniela Brogi
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