Hunger

(Ri)vedendo oggi, a distanza di quattro anni dalla data di realizzazione e dal trionfo a Cannes 2008 (dove ottenne a furor di pubblico la Camera d’Or come migliore opera prima), si capisce bene perché nessun distributore avesse mai avuto il coraggio di far circuitare nelle nostre sale questo terrificante documento visivo. Un plauso particolare va quindi rivolto alla BIM per lo sforzo fatto al fine di evitare che un film tanto intenso, importante e artisticamente riuscito rimanesse una pura fiammata passata a incendiare il pubblico della Croisette e poi negata al pubblico italiano per gli eccessi di realismo con cui documenta ciò che non merita di essere dimenticato, anche se cinema e letteratura lo hanno già rappresentato in molte altre occasioni.

Se Hunger arriva nelle nostre sale, pur con deplorevole ritardo, lo si deve però anche alla potenza di traino avuta dall’opera seconda del suo regista, il video-artista Steve McQueen: tutto sarebbe stato molto più difficile senza il suo forse sopravvalutato Shame dello scorso anno, ma soprattutto senza la Coppa Volpi andata a Michael Fassbender che, in qualità di protagonista di entrambe le pellicole, ha fatto un po’ da ponte estetico permettendo così di agevolare un lancio che altrimenti sarebbe stato fin troppo arduo per il pubblico delle nostre latitudini.

I fatti che Hunger documenta riproponendoli sono assai noti perché negli ultimi vent’anni molte altre pellicole se ne sono già occupate in vario modo e con approcci diversissimi (basterebbe a questo proposito rammentare Nel nome del padre, Una scelta d’amore, The boxer, Bloody Sunday e il visionario Il silenzio dell’allodola): mentre il Regno Unito era squassato da una vera e propria guerra civile tra esercito regolare e attivisti irlandesi decisi a tutto pur di far sì che la regione nordirlandese dell’Ulster si ricongiungesse alla repubblica dell’Eire, tra la fine del 1980 e l’estate del 1981 alcuni attivisti dell’IRA rinchiusi nel carcere speciale di Long Kesh a Belfast iniziarono una serie di spettacolari forme di protesta per vedere riconosciuto lo status di prigionieri politici, che il governo inglese aveva revocato per tutti i crimini commessi dopo il 1976. E così, dopo aver prima rifiutato di vestire l’uniforme carceraria limitandosi ad andare in giro con addosso una coperta (protesta della coperta) e poi scelto di non lavarsi più (protesta dello sporco) arrivando a imbrattare le pareti delle celle coi propri escrementi e vivendo in uno stato igienico insostenibile, Bobby Sands e i suoi compagni di lotta optarono per uno sciopero radicale della fame che si chiuse con uno spaventoso bilancio di 10 morti per inedia nell’arco dei sei mesi.

Hunger ricostruisce l’intera parabola di queste tre forme di protesta sinistramente spettacolare suddividendo il corpo del racconto cinematografico in tre tronconi perfettamente distinti: dopo una prima parte nella quale lo spettatore viene messo di fronte alla condizione in cui versano i detenuti (nudi tra escrementi come in gironi infernali che fanno sembrare giardini d’infanzia quelli danteschi) e al costante abuso subito dai violentissimi secondini inglesi, ne segue una seconda in cui Bobby Sands riceve la visita di un parroco cattolico che cerca di dissuaderlo dal proposito, ormai irremovibile, di lasciarsi morire di fame. Il lungo dialogo tra i due personaggi, la sola sezione del film in cui le parole abbiano la meglio sui lunghi silenzi e sulle grida dei detenuti massacrati di botte, fa da trampolino di lancio alla terza parte, la più dolente e visivamente insostenibile del film di McQueen: e cioè quella in cui la lenta agonia di Bobby Sands viene scandita dal progressivo deperire del suo corpo in un dimagrimento impressionante che solo la morte liberatrice sublima alla fine di un calvario indicibile.

L’aver visto Shame può aiutare a capire come Hunger sia soltanto apparentemente un film politico impegnato a ricordare ancora una volta un sacrificio immane in nome di un ideale assoluto quale solo quello della libertà può essere. Pur volendo documentare sbattendo in faccia fatti che sono ormai Storia consolidata e senza mai avere l’intento di convertire Bobby Sands e i suoi compagni di martirio in tanti santini da tatuare nella memoria, ciò che a Steve McQueen sta veramente a cuore è ancora una volta l’ossessione del corpo come palcoscenico vero su cui va in scena il teatrino della vita (qui tutto all’insegna della violenza e del sopruso). E se in Shame questo allestimento era rappresentato dall’ansia di possedere il corpo altrui in una sorta di bulimica sete di appropriamento sessuale, in Hunger il corpo diventa il terreno accidentato su cui si combatte la battaglia della politica e delle sue degenerazioni e che non risparmia nessuno tra vittime e carnefici. Non è un caso infatti che il film si apra coi dettagli delle nocche della mano di un secondino tumefatte dai troppi pugni assestati ai detenuti e si chiuda sul volto spiritato e cristologico di Fassbender sul letto di morte. Il tutto dopo aver passato attentamente in rassegna il degrado dei corpi umiliati dal sudiciume misto al sangue susseguente ai pestaggi ma anche il piagarsi della pelle del protagonista col procedere dell’astensione dall’alimentazione.

Film durissimo che rifiuta quasi programmaticamente di prendere posizione in merito ai fatti che denunzia, Hunger si differenzia da tutte le altre pellicole dedicate a quelli che gli inglesi continuano a chiamare con disprezzo “The Troubles” (rifiutando di concedere a trent’anni di violenza senza fine lo status di guerra civile), per l’approccio registico scelto da Stev McQueen per raccontare questa cupa epopea di violenza e martirio civile: insistendo con camere fisse piazzate in punti strategici del set e curando ogni inquadratura come se fosse una sorta di quadro dolente che aggiunge un nuovo spicchio di sofferenza a quanto è già stato mostrato in precedenza, lo spettatore è costretto a entrare anche emotivamente nell’immagine senza poter mai distogliere lo sguardo da quello che gli viene mostrato. Sia quando la violenza (mostrata in modo evidente o solo suggerita acusticamente) sembra davvero eccessiva per essere sostenuta, ma soprattutto quando – nella terza parte – il film diventa il corpo di Bobby Sands, martoriato dai morsi dell’inedia e piagato come una sorta di Christus patiens dei giorni nostri privo di una croce su cui esalare il suo ultimo respiro.

Pensato e concepito per palati forti in grado di sostenere un assalto visivo di un’ora e mezza su fatti lontani anni luce dalla nostra realtà, Hunger consacra a posteriori presso il pubblico italiano la stella di un attore, Michael Fassbender (scelto per il ruolo anche perché di madre irlandese), capace di devastare il proprio corpo arrivando a un dimagrimento di quasi 20 kg. che è pura realtà vissuta e che non paga pegno ad alcun maquillage fatto al computer. A conferma di come il corpo e il suo degrado siano davvero i protagonisti assoluti di tutta l’operazione.

Trama

Belfast, carcere di Long Kesh, 1981. Decisi a costringere il governo di Margaret Thatcher a riconoscere loro lo status di prigionieri politici, Bobby Sands e altri 9 attivisti dell’IRA iniziano uno sciopero della fame a oltranza che li porterà alla morte dopo infinite sofferenze.


di Redazione
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