Happy End

L’affiche del film si offre già come sintesi perfetta della nuova fatica (la tredicesima per il cinema) di Michael Haneke, regista e sceneggiatore austriaco, classe 1942 , che dal 2001 (ma non quest’anno) sulla Croisette aveva fatto incetta di premi tra cui ben due Palme d’oro, per Il nastro bianco nel 2009 e Amour nel 2012.
La famiglia Laurent – alta borghesia, ramo costruzioni – è seduta attorno a un tavolo nell’ampia sala, inondata dal sole, di un lussuoso ristorante in riva al mare. Al centro, ripresi frontalmente, siedono il patriarca, la figlia e il suo compagno, questi ultimi hanno in mano le redini dell’azienda familiare. Il fotogramma, come un fermo-immagine, condensa sui volti dei suoi componenti la paura e la sorpresa trattenute di chi assiste, nel fuori campo, all’irruzione di qualcuno e di qualcosa che è ben noto eppure al tempo stesso estraneo.

Siamo a Calais, luogo simbolico di frontiera, dove il mare oltre le ampie vetrate indica che l’Europa finisce là. L’elegante contrasto cromatico bianco e blu (gli arredi dei ristorante, l’incarnato e gli abiti dei commensali) dovrebbe far dimenticare che là vicino si stende quella palude fangosa che in questi anni è stata la “jungla”, un luogo inospitale, popolato da “strani” esseri umani, dove hanno finito per smarrirsi gli ideali di Liberté, Égalité, Fraternité. Nel cantiere dell’impresa intanto, già nelle prime scene del film, un incidente ha fatto smottare il terreno, un operaio è morto, altri risultano feriti, sicuramente sono migranti economici, clandestini, dunque indesiderabili, sarà più facile per i Laurent aggiustare la cosa con le autorità, manipolare, occultare.
Non sono “giochi divertenti” e nessun “lieto fine” verrà più a salvarci.

Nel cinema di Haneke gli effetti delle nostre azioni o omissioni, e persino quelli che chiamiamo segreti, sono quasi sempre “in campo”, visibili alla luce del sole (spesso protetti dalla totale impunità), ma le cause restano quasi sempre in ombra, caché – come recitava il titolo originale di quel suo geniale thriller psicologico del 2005. Sta a noi spettatori (come, fuori dal cinema, a noi cittadini), scoprirle. Sin dagli inizi, giusto 20 anni fa, con Funny Games, e sino a questo nuovo Happy End, Haneke delega a noi questo compito, affidandoci lo sguardo onnisciente dell’autore. Non vuole colludere con noi, rifiuta improbabili catarsi e finte intimità, ci interpella e ci pone dinanzi allo specchio, anche della nostra passività e ambiguità, intrise di sadismo e voyeurismo (era questo il tema e in certo senso la “tesi” di Funny Games del 1997 e del suo remake americano del 2007). Come avevano provato a insegnarci da tempo Anthony Burgess e Stanley Kubrick, le pulsioni di morte e di violenza intorno a noi (sempre più gratuite, per quanto ammantate da fedi e ideologie da “bar sport”) sono come “clockwork oranges”, il velenoso congegno a orologeria si nasconde all’interno di frutti dall’apparenza tenera e gentile (“ragazzate” le chiamerebbe oggi qualche presunto leader politico…).

In molti hanno criticato Haneke per aver realizzato un film meno estremo, più incline a dei toni quasi da commedia, ma proprio per questo meno potente e coeso. Lungi dal voler sostenere che Happy End sia la sua opera più riuscita, il regista conferma qui il suo sguardo affilato e implacabile, e però mai freddo. Ancora una volta, lavora mirabilmente sul distacco emotivo, a cominciare, brechtianamente, da quello degli attori (ritrovando il grande Jean-Louis Trintignant, che è Georges il patriarca, e la sua musa Isabelle Huppert, nel ruolo su misura della volitiva e nevrotica figlia Anne) e sulla distanza, che vuole rendere a tutti i costi evidente (per questo insiste sul ruolo pervasivo delle tecnologie mediate dagli schermi di un cellulare, un’altra intimità simulata). Fa questo con la narrazione e con la messa in scena, e in primo luogo con il linguaggio del cinema, grazie a quel preciso stile autoriale che tutti gli riconoscono (secondo la Huppert Haneke è una “curiosa combinazione tra Robert Bresson and Alfred Hitchcock”).

Proprio nella distanza, nelle sue diverse dimensioni e relazioni, il film trova la sua cifra. E’ la distanza che regna tra i diversi personaggi della famiglia, ciascuno chiuso nella sua “bolla” di egoismo assoluto e distruttivo (o auto-distruttivo), qualunque sia l’età della vita (dal patriarca che cerca di corrompere chiunque possa realizzare il suo desiderio di morte, alla dodicenne Eva, la brava Fantine Harduin, con il suo visino angelico); quella dei rapporti di classe che divide i ricchi dai poveri (quest’ultimi solo ombre sullo sfondo), i più forti dai più fragili (istruttivo il dialogo tra Anne-Huppert e il figlio schiavo dell’alcool); ma anche, e soprattutto, la distanza che separa quei personaggi e le loro vicende da noi spettatori. Valga, a questo proposito, una sequenza magistrale, in cui vediamo in campo lungo, sul lato opposto di un ampio viale, il personaggio di Trintignant che, arrancando da solo sulla sua carrozzella, cerca di assoldare alcuni migranti (indoviniamo il dialogo dai gesti) affinchè lo uccidano.

Dopo aver mirabilmente raccontato la progressiva deriva verso la morte e la follia di una coppia di anziani e colti borghesi in Amour, Haneke (che si auto-cita evocando la biografia del personaggio di Trintignant in quel film) descrive il lento suicidio di una intera famiglia e di una intera classe. Ma se la morte incombe di continuo dentro e fuori la casa, come il lento, inesorabile ticchettio di quell’ ’arancia meccanica’, il suo atto finale resta sino alla fine fuori quadro, irrappresentabile: troppo ingombrante è infatti oggi il suo tabù per le classi agiate. In superficie, invece, il tempo scorre veloce, “business as usual”, tra convenevoli, abbracci di maniera, cortesie per gli ospiti, adulteri, fidanzamenti di convenienza, il tutto condito da frasi di circostanza. Haneke schiaccia il pedale del sarcasmo, si ride a tratti, ma è un riso assai amaro (“straziato” avrebbe detto Pirandello). Viene in mente l’aggettivo sardonico, quel riso stirato, deformato, quasi una piega agli angoli della bocca, che è proprio la mimica risposta dell’ immenso Trintignant alla battuta che un ospite, credendo di compiacerlo, gli rivolge: ‘l’erba cattiva non muore mai’.
In effetti, la mala pianta di questa upper class onnivora e invasiva è dura a morire, ma ha già passato il testimone a figli e nipoti, e il risultato non si annuncia migliore. Anche Haneke ci ha ora avvisati da par suo. In verità, in Europa, non è che l’ultimo di una lunga schiera di autori: pensiamo, tra gli altri, ai fratelli Dardenne, a Cristian Mungiu, al ben più cinico compatriota Ulrich Seidl, al surrealismo più bonario di Aki Kaurismaki.

Trama

Una famiglia dell'alta borghesia a Calais. Il padre è il fondatore di un'azienda di costruzioni che ora è guidata dalla figlia e dal nipote. NeI cantiere un grave incidente ha causato una vittima. Nel contempo il fratello di lei, passato a seconde nozze, ha problemi con la figlia dodicenne di primo letto che viene a vivere nella grande villa di famiglia dopo il misterioso ricovero della madre. Tra infedeltà, tradimenti, ossessioni, i componenti della famiglia non si accorgono che anche la ragazza nasconde un sinistro segreto…


di Sergio Di Giorgi
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