Dunkirk

L’uscita italiana dell’ultimo film di Christopher Nolan – avvenuta con un mese di ritardo rispetto alla prima londinese – è stata (strategicamente?) preceduta da tutta una serie di rumors mediatici che, assieme all’ottima accoglienza ricevuta a livello internazionale, hanno generato notevoli aspettative. Casi come questo finiscono spesso purtroppo per orientare a priori, in un senso o nell’altro, il giudizio critico, che rischia così di lasciarsi imbrigliare invece di adoperarsi liberamente in un confronto serrato e scevro da pregiudizi con l’oggetto-film.

Dunkirk è un film “di guerra” che sceglie tendenzialmente di restare ancorato ai canoni del genere, e come tale non rinuncia a una certa dose di patriottismo e di eroismo, non fa mistero dell’intenzione di conquistare lo spettatore attraverso i meccanismi della suspense, della tensione narrativa ed emotiva, e dichiara fin da subito che la grandiosità e la spettacolarizzazione del racconto sono tra gli obiettivi che si prefigge. Fintantoché tutto questo vuole essere percepito come un limite, come un gioco facile per non dire sporco, e non come una scelta legittima, diventa difficile rendere giustizia all’indiscussa maestria di Nolan nell’orchestrare in maniera impeccabile, limpida e geometrica la materia trattata.

Come già avvenuto in precedenza, il regista inglese frammenta la linea temporale e con essa lo spazio dell’azione, per poi riunirli – quasi nell’epilogo – in un fluire unico e finalmente ininterrotto. Il molo – per sineddoche la terra – è il luogo dove il soldato Tommy trascorre una settimana, tentando con ogni mezzo di sopravvivere, e di imbarcarsi a qualunque costo per sfuggire alla morte per mano del nemico. Il mare (la Manica) è quello solcato nel corso di un giorno da Mr. Dawson, un “marinaio della domenica” che parte dall’Inghilterra verso Dunkerque per salvare – a suo rischio e pericolo – i soldati inglesi bloccati sulla spiaggia e circondati dall’esercito tedesco. Nel frattempo nel cielo, nel corso di un’ora appena, il pilota Farrier cerca ostinatamente di abbattere i bombardieri tedeschi che si accaniscono sulle truppe inglesi in ritirata.

Film di spazi immensi descritti da una fotografia magistrale, livida e trasparente, Dunkirk è al contempo terribilmente claustrofobico. La spiaggia trasfigura presto in un non-luogo sinistramente onirico, sempre immobile e uguale a se stesso, sconfinato e disperante, dove trascinarsi stancamente in una perenne attesa, mentre le onde rigettano corpi esanimi sul bagnasciuga e dall’alto piove il fuoco nemico. Ogni nave in partenza, potenziale luogo salvifico costantemente agognato, si trasforma in un bersaglio e quindi in una trappola mortale, dove si annega in centinaia, pressati nella stiva a pochi metri dalla riva. Accanto a questa dicotomia spaziale apertura/chiusura, ce n’è un’altra che riguarda l’azione: perché Nolan inscrive nella staticità esasperante dell’attesa un frenetico dinamismo interno che è, essenzialmente, istinto invincibile di sopravvivenza, intriso di angoscia e paranoia.

L’intento del regista, nella sua decostruzione meditata del contiuum spazio-temporale e dunque dell’azione collettiva, è quello di sovrapporre lo sguardo spettatoriale a quello del singolo (Tommy a terra, Farrier in aria, Dawson in mare) costretto a muoversi verso il proprio obiettivo (la salvezza della propria vita, l’attacco o il soccorso) senza conoscere le coordinate del proprio spazio di movimento né l’esito potenziale delle proprie rischiose scelte.

L’eccellente e cupa partitura sonora di Hans Zimmer riesce efficacemente ad esacerbare la tensione in questo racconto che, come molto cinema di Nolan, è essenzialmente fisico, epidermico, immersivo: si agogna l’aria, si affonda in acqua, si schiva il fuoco in un alternarsi di ansia e momentanei sollievi, sgomento e speranza.

Se il nemico, presenza pervasiva e incombente, è tuttavia completamente invisibile – solo bombe e aerei, nessun volto umano – non è per una scelta di campo ma per ribadire, verosimilmente, la problematica parzialità della visione dei personaggi.

In sintesi, Dunkirk è un meccanismo perfettamente oleato e messo a punto con precisione ineccepibile sotto ogni aspetto (ritmo narrativo, studio degli spazi, ricerca stilistica). Resta, senza dubbio, un film che lo spettatore in una certa misura subisce e assorbe sul piano sensoriale senza che gli sia lasciato il tempo di scegliere, di metabolizzare. A differenza – ad esempio – di un capolavoro come La sottile linea rossa (con il quale condivide l’autore della colonna sonora) che, all’opposto, non è un film che asserisce ma piuttosto un film che interroga, generando pensiero prima ancora che sensazioni. Tuttavia, un confronto posto in questi termini sarebbe inevitabilmente scorretto e improduttivo: perché gli obiettivi che le due opere si prefissano sono palesemente differenti, così come lo è il percorso dei rispettivi autori.

Se si considera invece, con uno sguardo rapido e finanche approssimativo, la totalità degli esempi ascrivibili al genere, e soprattutto l’evoluzione creativa di Nolan rispetto alle sue ossessioni predilette (il Tempo come luogo labirintico e disgregabile, prima di tutto) la solidità e l’impatto di un’operazione come Dunkirk divengono innegabili.

Trama

Francia, maggio 1940: l’esercito tedesco ha accerchiato le truppe alleate e le ha spinte a ridosso del mare, isolandole sulle spiagge di Dunkerque. Stretti in una morsa, migliaia di soldati attendono di essere imbarcati per attraversare la Manica. Sono stremati,  impossibilitati a muoversi e costantemente esposti al fuoco nemico. Molti di loro verranno miracolosamente salvati grazie alla cosiddetta “Operazione Dynamo”, eroica e disperata evacuazione via mare portata a termine anche grazie al coinvolgimento di imbarcazioni civili.


di Arianna Pagliara
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