Cento chiodi

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cento-chiodi_olmiCentochiodi è, anzitutto, la storia di un uomo in crisi: un giovane ma già affermato professore (Raz Degan) dell’Università di Bologna, ad un certo punto, decide di abbandonare tutto e di cominciare una nuova vita. Novello Mattia Pascal, dopo aver gettato via telefonino e documenti, viene, all’inizio, creduto morto mentre,in realtà, sta semplicemente riappropriandosi di se stesso, dopo essere approdato sulle rive tranquille del Po’. Qui, il professore scopre un vecchio rudere e ne fà, con l’aiuto degli abitanti del posto, la sua nuova dimora, intorno alla quale cominciano a ruotare incontri, storie d’amicizia e di vita quotidiana. Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico, afferma il protagonista verso la fine del film ma, fin dall’inizio, le sue azioni sembrano rifarsi a questa semplice ma decisiva massima. Del resto, sempre coerente con questa idea, il giovane docente aveva già spiegato ad una studentessa indiana che c’è più verità in una carezza che nei libri. Stanco di una vita tutta di carta, il Professorino ne inaugura un’altra, in cui ciò che conta sono i rapporti autentici con gli altri uomini e le gioie semplici di ogni giorno, in una sorta d’intesa spontanea con l’istante in cui si vivono tutte le possibili realtà. Così facendo, il giovane diventa, ben presto, punto di riferimento per l’intera comunità, minacciata dallo sgombero, che vede in lui una specie di Cristo redivivo. Un Cristo delle strade, non l’idolo degli altari e degli incensi. E neppure quello dei libri, quando libri e altari diventano formalità vuote, motivo di convenienza, pretesto di sopraffazione. Ha dichiarato lo stesso regista: ogni qualvolta un uomo si comporta secondo modalità di relazioni umane che somigliano a quelle dell’uomo Cristo è, in un certo senso, lui stesso Cristo. Ed è, se non proprio Cristo, qualcuno che un poco gli somiglia, colui che Olmi vorrebbe portare con sé, congedandosi da questo film con cui abbandona, seppur lietamente, il cinema narrativo. Naturalmente,il fatto che Centochiodi possa essere l’ultima opera di finzione del regista, in qualche modo, carica il film di ulteriori significati: l’ultimo atto riassume, sempre, in sé il senso di tutta l’esistenza. Questa consapevolezza, probabilmente, ha contribuito ad ispirare la scena, di grande bellezza e di profondo valore simbolico, destinata a restare nella Storia del Cinema: quella della crocifissione dei libri, chiaro e potente segno di ribellione contro ogni forma di conformismo e imposizione.
Se non fosse irriverente, sarebbe l’opera di un artista geniale, viene detto, nel film, di fronte allo scempio dei libri perpetrato nell’antica, solenne biblioteca universitaria. Artista geniale, e tutt’altro che irriverente, è, senz’altro, Olmi che, con Centochiodi, non profana il Verbo ma lo desacralizza, spogliandolo di quella crosta di idolatria che noi esseri umani mettiamo, spesso, sulle cose.
Un film di un grande Maestro, non solo di cinema.

Mariella Cruciani

Note critiche di Maurizio Fantoni Minnella

L’immagine fissa del mare di libri inchiodati al pavimento, nel tempio bolognese della scienza del sacro, è di sicuro un’icona destinata ad imprimersi nella memoria, nell’immaginario collettivo degli spettatori. Premessa o assioma che sia, il film di Ermanno Olmi prende le mosse da quell’immagine, dandole uno sviluppo conseguente che tuttavia si rileva debole e insufficiente. Le immagini del cinema difficilmente possono sostituire le speculazioni del pensiero. Se si vuole che questo accada, allora è necessario innanzitutto essere in possesso di un solido background filosofico ma soprattutto la capacità di dominio del racconto che non può essere necessariamente affidato alla bellezza delle immagini ma al senso in grado di produrre. Il film procede per gesti perentori: la fuga del bel professore filosofo dalla “civiltà” con conseguente scoperta del piccolo mondo del fiume, non un nuovo mondo, dunque, ma il vecchio mondo della gente semplice, che già aveva chiamato in causa con maggior naturalezza di intenti con “L’albero degli zoccoli”.

In tal senso Olmi sembra piuttosto radicarsi in una sorta di resistenza al cattivo progresso dei burocrati e ai bulldozer, in nome forse di un umanesimo “ambientalista” la cui radicalità non sta tanto nella declinazione ideologica, quanto nell’accordo naturale con quanto ci è stato donato fin dalle origini della creazione (ad esempio, la sintonia con il ritmo delle stagioni o il rispetto per il luogo che ciascun uomo sceglie di occupare e al contempo per l’uomo stesso). Ma allora perché intraprendere il sentiero impervio per qualsiasi cineasta dell’apologo spirituale?. Ad accompagnare la fuga dell’uomo di pensiero, stanco del pensiero stesso e della parola scritta come sua esemplificazione testimoniale, Olmi introduce a sua volta due pensieri che diventano parole, finendo per negare il proprio intendimento: la prima: “tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico”. La seconda: “Nessuna religione è mai riuscita a salvare il mondo”. Da un punto di vista strettamente etico-filosofico, entrambe le tesi si contraddicono non tanto nel significato quanto nella natura della formulazione: se ad esempio, la seconda contiene in sé una propria verità oggettiva, la prima, al contrario, è puro gesto soggettivo, leggibile solo all’interno di una dinamica psicologico-esistenziale che invece il regista preferisce ignorare, lasciando veramente il suo personaggio-Cristo sullo sfondo, anziché farne una figura di qualche spessore.
Se in Farenheit 451 di Françoise Truffaut, alcuni uomini “illuminati” memorizzavano il contenuto dei libri per sottrarli all’oblio della distruzione voluta dal pensiero unico, in I cento chiodi, è il singolo individuo a dichiarare la morte dei libri, accelerandone la fine, quasi intendendo anticipare il pensiero globale, secondo il quale i libri non servono né per la sopravvivenza materiale, né per la felicità. Come giudicare allora un simile personaggio ed anche il suo creatore, un Olmi forse saturo di pensieri, di teorie, di false utopie, ma certamente così confuso da non riuscire a controllare la materia, né a darle un possibile sviluppo dialettico?

Inoltre, nell’attribuire al protagonista una sorta di naturale prigionia nel mondo dei libri, (ho trascorso tutta la vita tra i libri…), ancor più né limita il gesto estremo al territorio della psicologia (non sviluppata) e non invece della filosofia. Se il suo Cristo necessitava del nutrimento della vita in opposizione a quello della parola scritta, non vi è alcuna pienezza che lo accompagni se non la risaputa convinzione (di certo appartenente più al regista che al suo personaggio), che nel mondo dei padri o che sta per morire, che con Pasolini diremo pre-urbano, vi è più saggezza che nella cosiddetta civiltà urbana.
Olmi pretenderebbe di teorizzare una nuova era laico-cristiana, sostanziata di un presunto nuovo umanesimo, che, ad esempio, in Sudafrica ha preso il nome di “Ubuntu” che avrebbe inizio con il martirio dei libri (vi è una fin troppo evidente simmetria con il martirio di Cristo che diede avvio all’era cristiana) senza tuttavia essere capace di conferire al racconto per immagini la struttura e la sostanza necessarie per una simile impresa, tipicamente di inizio millennio. Del film testamento del regista lombardo, resta tuttavia la calma bellezza delle immagini del Po (riguardo al quale proprio in questi giorni si parla di una minaccia incombente) che di per sé costituirebbero materia per un documentario sulla vita e la morte di un grande fiume. Lunga vita, dunque, all’Olmi documentarista.


di Mariella Cruciani
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