Bobby

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bobbyChe l’intento di Emilio Estevez non sia quello di fare un film politico sull’America degli anni sessanta, né un film biografico sul senatore Robert Fitzgerald Kennedy, si comprende presto. Il volto del senatore degli Stati Uniti non è quello di un attore che lo impersona ma quello che si vede nelle immagini di repertorio, negli spezzoni di documentario che fanno da controcanto alle vite di molti uomini e donne comuni, che la sera del 6 giugno 1968 si ritrovano all’Ambassador Hotel di Los Angeles. E’ sui loro volti e sui loro pensieri che si sofferma Estevez, scegliendo di orchestrare un film corale, che procede con leggerezza e senza troppa ambizione a raccontare cosa avvenne quella notte di primavera da un punto di vista tutto soggettivo, intimo.
Non c’è quindi la pretesa di raccontare la grande storia, ma di far trasparire qua e là, negli occhi della gente comune, le speranze di una nazione: una parrucchiera, una coppia di giovani che si sposa solo per evitare la partenza di lui in Vietnam, due telefoniste, un cameriere messicano e molti altri che con loro, per una notte, intrecceranno le loro vite. Neanche c’è la pretesa di dare a Kennedy un volto nuovo: quello sgranato che appare sullo schermo, come la sua voce, sono autentici.

Il film ha il pregio di saper coniugare finzione e documentario in modo nuovo, con immagini di repertorio inserite nel continuum della finzione filmica senza preannunciare in alcun modo il passaggio da un piano all’altro, così da annullare lo scarto tra le due dimensioni che, anziché procedere su linee parallele e separate, si intrecciano. Con un semplice campo-controcampo si passa dal volto del senatore, che parla agli elettori riuniti all’Ambassador, alla folla entusiasta che lo applaude: ma la folla è composta da attori e comparse.
Bob Kennedy incarna il sogno di molti americani, il volto umano e pacifico di una grande potenza mondiale, e lo spettatore è toccato su un piano tutto emotivo e sentimentale dalla sua voce fuori campo, da quelle parole che appaiono molto lontane dall’arrivismo e dal cinismo di certi contesti politici. I temi scottanti dell’America dell’epoca, la guerra in Vietnam, i contrasti e le tensioni interne di una società multietnica, fanno da sfondo alle vicende dei protagonisti. Tuttavia queste tematiche forti, come i discorsi elettorali di Kennedy e le sue riflessioni sulla violenza e sul razzismo che dilaniano l’America – peraltro molto attuali a distanza di quasi quarant’anni – sono inserite in un contesto, quello del film, che non vuole scavare troppo a fondo, ma preferisce arrestarsi alla superficie delle cose: forse perché più liscia, più bella, meno problematica. Così, nel finale del film, con una conclusione forse troppo facile, anche se Kennedy è stato ucciso, i contrasti del piccolo mondo dei protagonisti si ricompongono e i due giovani sposi si scoprono più innamorati di quanto credessero.

La sequenza che descrive l’uccisione di Kennedy è forse il momento più riuscito del film: la macchina da presa lo cerca tra la folla, con una soggettiva, attraverso quello che per un attimo sembra il mirino di un’arma da fuoco. Ma è soltanto la cinecamera di un giovane attivista politico che vorrebbe rubare qualche immagine del senatore. Quindi una soggettiva di Kennedy annulla definitivamente lo scarto tra documentario e finzione: vediamo solo una mano che entra nell’inquadratura, il braccio teso a stringere altre mani, che le persone accalcate nella cucina dall’Ambassador protendono verso di lui, verso la macchina da presa. La tensione sale sempre di più, fino a quando tra la folla spunta un uomo con una pistola, e spara. Solo pochi istanti prima della morte Bob Kennedy penetra del tutto nell’artificio filmico, e lo spettatore, che nell’ultima sequenza non ne vede mai il volto, può immaginare il suo sorriso, che riappare insieme ai titoli di coda nelle fotografie in bianco e nero che lo ritraggono insieme al fratello John.


di Arianna Pagliara
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