Äta sova dö (Eat Sleep Die) – Film vincitore della SIC 2012

Non è certo facile per un ragazza come Raša, svedese di origine balcanica e di religione musulmana, trovare un nuovo lavoro dopo essere stata licenziata dalla fabbrica in cui lavorava come operaia addetta al confezionamento di insalate in vaschette di plastica. Non ha un diploma di scuola superiore e deve mantenere suo padre, cui è molto affezionata. Partecipa a corsi di recupero e supporto psicologico per disoccupati e fa di tutto per reinserirsi nel mondo lavorativo. Ma deve anche rendersi conto all’improvviso, in questa difficile circostanza, di non godere sotto ogni punto di vista di pari opportunità nel paese in cui ha scelto di vivere.

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Se nella congiuntura internazionale l’emergenza lavorativa sta assumendo proporzioni impressionanti, la difficoltà di ritrovare lavoro dopo un licenziamento per gli stranieri diventa – se possibile – persino più preoccupante. Non basta per la giovane ex operaia protagonista del film avere l’intransigente volontà di rimettersi in pista. Non basta cioè presentarsi sin dal principio allo spettatore come una persona forte, dal momento che la sua svantaggiosa condizione di partenza, per così dire di cittadina di seconda classe, la penalizza ulteriormente in una situazione di per sé grave e comune a molti altri operai e operaie di tutte le età rimasti senza lavoro. Questo formidabile ed emozionante film d’esordio di una regista svedese di origini austro-bosniache, che pure sembra ricalcare lo schema del celebre Rosetta dei fratelli Dardenne, ha innanzitutto il merito di non essere dimostrativo né didascalico. Cioè di non seguire pedissequamente modelli preordinati, né di puntare a una denuncia astratta delle condizioni ingrate in cui versano coloro i quali perdono il lavoro e che nutrono scarse possibilità di intravvedere una prospettiva a breve o medio termine. Insomma questo non è un film a tema, né vuole riproporre oggi un impianto di tradizione neorealista, ma è un tentativo ben riuscito di impostare i termini del problema a partire dalla persona, non dall’ambito socioculturale al quale questa appartiene. È di una ragazza che questo film parla, delle sue vicissitudini, del suo girovagare in cerca di una ricollocazione in un sistema sociale molto esclusivo che nasconde il suo vero volto dietro un efficiente apparato teso a contenere il disagio del licenziamento.

(Anton Giulio Mancino)

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Gabriela Pichler, di genitori bosniaci e austriaci emigrati in Svezia, nel 2008 si diploma all’università di Göteborg con il corto Skrapsär (Scratches), storia di teenagers che si avventurano in un’area industriale dismessa forse per viverci o forse solo per passare il tempo, con il quale ha vinto nel 2009 il Guldbaggen Award, e nel 2010 il Watch Audience Award all’Uppsala International Short Film Festival.

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NOTE CRITICHE di Mariella Cruciani

Nella sequenza finale di Ata sova do, opera prima di Gabriela Pichler, vediamo Rasa (Nermina Lukac), ragazza svedese di origine balcanica e di religione musulmana, dimenarsi al ritmo della musica, mentre canta: “Se ami Rasa, salta su e giù”. All’invito della giovane donna che sta salutando, forse per l’ultima volta, gli amici, tutti si lasciano coinvolgere e iniziano a muoversi a tempo. Si chiude così il riuscitissimo esordio di un’autrice nata da genitori bosniaci e austriaci emigrati in Svezia, la quale ha rivelato: “Volevo realizzare un film sulle persone che ho sempre amato ma delle quali mi vergognavo di far parte”. Attraverso il toccante ritratto di Rasa, impudente e sincera, Gabriela Pichler intende ridefinire l’immagine che gli svedesi hanno della Svezia e dell’identità nazionale; “In Svezia, attualmente, non ci sono film che mostrano la crisi economica, e non solo, e io ho voluto fare proprio questo, far vedere agli svedesi ciò che succede davvero!”. Per mezzo delle vicissitudini della protagonista, in cerca di una ricollocazione dopo essere stata licenziata dalla fabbrica, la regista denuncia la difficile condizione di chi non gode di pari opportunità nel paese che ha scelto per vivere. “Volevo che le scene respirassero la rabbia, la frustrazione, ma anche l’energia della protagonista” – ha detto l’autrice. In effetti, Rasa è un concentrato di vitalità e forza miste a dolcezza, accuratamente repressa (“Torna a casa, cazzo!”, grida all’amato padre per telefono).

L’attrice Nermina Lukac è bravissima nel rendere, al contempo, l’aggressività e la fragilità di una figura femminile costretta, troppo presto, a fare i conti con una realtà umana e sociale nemica. Di fronte alle sfide che la vita le oppone, Rasa, però, non si tira indietro e, nonostante il dolore del distacco (“Non fa male che devo andare via, fa male che devo lasciare il mio amore”), è pronta ad abbandonare il paese e gli affetti per cercare una vita “altra” che non sia solo “mangiare, dormire, morire”. “Secondo me, questo film è più reale di un documentario” – ha commentato il direttore della fotografia J. Lundborg e davvero la pellicola trasuda verità.

Ha contribuito a questo effetto, probabilmente, il fatto che nel film ci sono pochi tagli e che molti dialoghi, nonostante la sceneggiatura definita, sono nati durante le prove. Il risultato finale è sorprendente per umanità e consapevolezza e per l’assenza di qualsiasi sentimento di rassegnazione o rinuncia: una gran bella lezione, di cinema e di vita!

(Mariella Cruciani)


di Redazione
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