Alla rivoluzione sulla due cavalli

Alla rivoluzione sulla due cavalli

Alla rivoluzione sulla due cavalliOn the road again, and again, and again…”, ogni volta che un road movie fa la sua comparsa nelle sale, il chilometraggio della frase che invita al viaggio aumenta. Alla rivoluzione sulla due cavalli, vincitore a Locarno con qualche riserva (due membri della giuria si sono dissociati dal verdetto), non si limita ad essere un road movie; è, piuttosto, un road movie che fa il road movie, zeppo com’è di tutti gli ingredienti tipici del genere: tre giovani amici che decidono di intraprendere un viaggio dalla Francia al Portogallo per “andare a vedere” la Rivoluzione dei Garofani; strade vuote sulle quali vola la loro automobile; centinaia di canzoni anni ’70, di quelle che non possono non accompagnare un viaggio; incontri, scontri, panne e soste pipì.

Un film “sulla strada” che, forse, nel voler prendere una scorciatoia per arrivare alla mente ed al cuore dello spettatore, come spesso accade a chi non sia pratico della zona, sbaglia strada.
Sciarra propone una versione riaggiornata, ma non troppo, dei grandi successi di Salvatores, su tutti Marrakesh Express, “co-adiuvato” in questo anche dall’intervento in sceneggiatura di Enzo Monteleone. I punti di contatto tra le due pellicole sono molteplici, ma mentre il “predecessore” si imponeva con originalità e grande freschezza nello scenario, poco praticato, del road movie nazionale, questa prova risulta molto meno riuscita nel tentativo di “ricreare un’atmosfera”. L’amicizia, l’amore, le incomprensioni, l’intesa, la complicità e la comicità rimangono solo sulla carta, progetti in attesa di sviluppo, se ne percepisce la presenza ma non si arriva all’incontro; moltissime sono le sequenze “potenzialmente” o “programmaticamente” emozionanti, pochissime sono quelle che raggiungono l’obiettivo. Concorrono a questo risultato due diversi fattori: da un lato gli interpreti che, forse pigramente o forse perché così tanto “carini” ma così poco “veri”, non entrano nelle battute, non si calano, divertendosi, nel contesto; dall’altro la macchina da presa che raramente indugia sui volti, sulle espressioni e sulle emozioni, un po’ troppo occupata a seguire o precedere una “due cavalli” gialla che, per quanto simpatica, rimane pur sempre un pezzo di lamiera. Anche in questo senso siamo molto lontani dall’antropomorfizzazione dell’automobile perfettamente riuscita in La dea del ’67 (Clara Law, 2000): là la Citroèn DS, diventava un vero e proprio personaggio, il personaggio; qui la Due Cavalli rimane un elemento di decoro, una bella idea realizzata a metà, a dimostrazione del fatto che non basta scegliere una macchina mitica per avvolgere di un alone mitico la vicenda.


di Ludovico Bonora
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