Dumbo, Stanlio & Ollio

Anton Giulio Mancino, in un nuovo appuntamento della rubrica Cinema è Storia, cerca di analizzare cosa possano avere in comune Stan Laurel e Oliver Hardy con Dumbo. Protagonisti, per una coincidenza che non può dirsi solo tale, di una riscoperta sul grande schermo.

Per una coincidenza, che non può dirsi solo tale, due film molto recenti e paralleli, Dumbo, la versione live-action di Tim Burton del vecchio classico della Disney, e Stanlio & Ollio, il biopic parziale di Jon S. Baird, impongono una riflessione allargata sulla guerra, le guerre mondiali, i numeri di quelle guerre, che non comportano soltanto il bilancio tremendo di morti.

Nel Dumbo di Tim Burton tutto ruota attorno alla fine della Grande guerra, che ancora non era stata numerata e ribattezzata tragicamente “Prima” guerra mondiale, implicando la Seconda. Quindi una terza e così via. La corrispondenza con il primo Dumbo – L’elefante volante passa attraverso la cronologia non rappresentata ma effettiva di ordine bellico-numerico: l’anno del primo film è infatti il 1941, lo stesso in cui gli Stati Uniti entrano in guerra. Ricapitolando, il primo Dumbo è contemporaneo della “Seconda” guerra mondiale, mentre il secondo, per colmo di paradosso o di intenzionalità (noi, convinti come siamo dell’equazione che salda Cinema & Storia, donde il titolo della nostra rubrica, propendiamo per l’intenzione), pone come premessa la “Prima”, ed ex “Grande” guerra (mondiale).

In altre parole, un Dumbo si offre come il prequel dell’altro, anche dal punto di vista della guerra evocata, anche se successivo sul piano temporale. Combinandosi sia pure per un istante, l’uno con l’altro, generando una vertigine terrificante, prefigurano una sorte comune originata dall’incapacità di includere l’Altro, il Diverso, l’Estraneo alle norme della comunità ristretta, chiusa, paurosa, dove la volontà ferrea di escludere è un cupo sintomo pre-bellico (il primo Dumbo) e post-bellica (il secondo Dumbo) che obbedisce a un meccanismo di paradossi temporali, capovolgimenti, volontà di collegare una cosa all’altra in un frangente storico in cui si sta smarrengolo la logica del discorso, il principio di non contraddizione, la relazione stretta tra causa ed effetto.

Ciò comporta che il Dumbo originale guardi avanti, alla guerra numero due, e il Dumbo successivo, in quanto pseudo-remake, guardi a quella precedente ma anche al futuro, all’oggi, alle prove generali di una Terza guerra mondiale sempre simulata o ventilata. Un Dumbo si salda all’altro, secondo una logica di specchi, inversioni, reciprocità terribili esattamente come una Guerra mondiale si è saldata all’altra, allorché il cui principio numerico con effetto retroattivo ha determinato inquietudine permanente di riproducibilità. Non c’è da sorprendersi quindi che nel Dumbo versione Tim Burton il primo “mostro” involontario, guardato con segreto affanno da tutti gli altri colleghi “mostri” del circo, sia l’ex star e ora reduce di guerra, tornato senza un braccio, menomato, dalla madre di tutte le guerra, la guerra “grande” per eccellenza, superata e ri-numerata dalla successiva. Mostruosa o piuttosto madre di mostruosità su scala globale è la guerra che sostituisce/cancella la madre di Milly e Joe, non la madre dell’elefantino le cui altrettanto “grandi” orecchie sono la premessa permanente di un atteggiamento di condanna collettiva, maggioritaria, intollerante.

Le “grandi orecchie” di Dumbo, uno o l’altro, non fa differenza nella differenza, il “primo” del 1941 e il “secondo” del 2019 (realizzato a un secolo esatto dalla fine dell’ormai “Prima” guerra mondiale) sono insomma l’effetto (speciale, digitale) dell’autocoscienza e dell’autodeterminazione, ma anche del paradosso storico-cronologico.

Ma che c’entrano con Dumbo Stan Laurel e Oliver Hardy? Li abbiamo chiamati in causa, in tema di cause ed effetti, più o meno collaterali, perché è vero che il film che ha riguardato con perizia mimetica impressionante, una porzione emblematica del loro “viale del tramonto” si colloca nella fase post-bellica, con riferimento alla Seconda guerra mondiale. Il contributo dei sempre stupendi Laurel e Hardy alla guerra mondiale numero due è innegabile, costante: fanno testo, in chiave affettuosa e commemorativa Ciao amici! (1941), Il nemico ci ascolta (1943) e Il grande botto (1944).

Quanto alla guerra mondiale numero uno, non c’è dubbio: l’esemplare di riferimento, meravigliosamente irridente, oltre che divertente, è Il compagno B (1932). Ma nel discorso sulla propedeucità numerica delle guerre mondiali, si va oltre. Infatti, se mai occorresse un testimone della situazione assurda e tragicomica in cui sono precipitate le guerre da un certo momento in poi definite “mondiali” per ragioni di dismisura planetaria, ebbene non si potrebbe fare a meno di Stan Laurel, il cui personaggio in Teste dure (1938), rimasto per vent’anni in trincea non come un deficiente (“dumb”) ma come un assennato e pragmatico soldato, si è in pratica preparato già per la (Seconda) guerra mondiale alle porte. Con un anno di anticipo. Previdente, saggio, consapevole della demenzialità non sua ma dei meccanismi seriali che regolano il decorso e l’avvicendamento bellici.

Detto altrimenti, con Dumbo o Stanlio, non fa differenza, una guerra tira l’altra, chiama l’altra, reclama l’altra, andando avanti e indietro lungo l’asse della cronologia, senza soluzioni di continuità o di verso prevalente. Il cinema ce l’ha ricordato spesso, specialmente tra le righe. Ridendo e non scherzando.


di AntonGiulio Mancino
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